venerdì 24 luglio 2015

Capitolo IX

IX

L’autobus delle dieci arrivò con un grande rombare, spezzando a metà il discorso di Alessandro che, assorto nei ricordi, fu colto di sopresa insieme ad Andrea. Ne uscì una donna bellissima, di età indefinibile, tra i venti ed i trenta. Incappucciata, con un cappotto dal bavero alzato che la copriva fino al collo, lasciava intravedere solo il volto e i grandi occhi verdi. La donna sorrise e il ragazzo, trattenendo un singulto, le andò incontro in silenzio. Insieme, Giulia e Alessandro attraversarono il marciapiede, mano nella mano, e...

E poi vissero. Vissero e basta, gentile lettore, se felici, se per sempre, e cosa furono gli avvenimenti di cui si parlava non è dato conoscere, che la vita, quella vera, non si può raccontare. Ti allieti però sapere che nell’alzarsi Alessandro lasciò cadere ai piedi di Andrea un libriccino verde: rilegato in cuoio, sgualcito, ma di fattura pregiata. Sulla copertina vi era scritto L’amore immaturo


venerdì 17 luglio 2015

Capitolo VIII

VIII

Era la sera del 20 settembre 2014, la luna era un piccolo spicchio d’arancia ed il cielo, cotonato di soffici nuvole, si accendeva in un coro di stelle. Non ero con Giulia, non la vedevo anzi da due giorni (cosa strana per noi, che dal giorno della laurea abbiamo praticamente convissuto). Camminavo per strada da solo pensando alle cose più strane. Di fronte a me il panorama, il mare e gli scogli, il vulcano dormiente, le case, le luci, le navi…
Avendo da poco finito lezione -davo lezioni di greco ogni sabato-, mi avviavo come mio solito a casa, mi sarei fatto una doccia, avrei preso l’auto, e sarei andato da lei. 
Una serie di azioni che compivo ogni volta da mesi e alle quali nemmeno mi trovavo più a pensare (né quella volta faceva eccezione).
Camminavo mezzo assorto con lo sguardo tra le nuvole quando una goccia d'acqua mi cadde sulla fronte dal nulla. Pioveva. O meglio piovigginava, come tipico del mese di settembre. 
Ricordo che per scampare a quello che si apprestava ad essere il primo temporale dell'autunno incipiente, cominciai a correre verso l'interno della costa per ripararmi sotto uno dei balconi che sporgevano lungo la via principale. Assieme a me correvano tutti, coppie di amanti sedute ad un bar, uomini in tuta, bambini, ciclisti. Fummo tutti colti dall'improvviso temporale. 
La pioggia cadeva in obliquo (alcune percezioni sensoriali restano intatte), era sottile ma fitta, sempre più fitta, cullata dall'ultima brezza marina. Oscillava insieme alle onde, ti carezzava la faccia come un lenzuolo, costringendoti a chiudere gli occhi mentre avanzavi. 
Adesso può sembrare stupido, lo so, e forse anche banale, ma è stato allora che ho compreso. Io ero felice. Io correvo ed ero felice. Felice davvero. Avevo un lavoro, un'individualità acquisita, avevo Giulia. Giulia... 
Certo ci sarebbe aspettato che io raccontassi di uno dei momenti passati con lei, di una notte d'amore, di una folle avventura on the road. Sarebbe stato senza dubbio più romantico ma non veritiero. Io capii che volevo Giulia nella mia vita quel giorno, in quell'istante. Lontano dal mondo, lontano da tutti. Pensai a quello che avevamo creato, al Il l'equilibrio che ognuno aveva saputo regalare all'altro. Pensai al nostro futuro, al vivere insieme, addirittura pensai ad un figlio. Ero convinto che qualsiasi cosa sarebbe accaduta da quel momento in poi, non avrei mai più cambiato idea sulla vita. E forse così fu davvero, nonostante gli eventi che sarebbero capitati di lì a poco.


Qualche settimana dopo Giulia…
 

giovedì 16 luglio 2015

Capitolo VII

VII

<<E, per sempre, lo è stato?>>
<<Oh… a dire il vero è qui che comincia…>>
<<ll 19  febbraio 2014 ci siamo laureati insieme, lo stesso giorno. Io in letteratura italiana, lei in filosofia antica. Subito dopo siamo partiti per un viaggio a Parigi, poi ci siamo iscritti alla specialistica, la stessa.
Giulia era diventata la mia quotidianità, il mio punto fermo nell’eterno caos della vita. A buon ragione diceva Aristotele che la felicità è tale solo se condivisa, Giulia mi aveva strappato dalla prigione della mia solitudine e solo col tempo capii che nessuno, davvero nessuno riesce a salvarsi da solo. Dio, la religione, la propria famiglia, le ancore di salvezza che traggono sempre l’uomo fuori dal baratro… nessuna di queste cose valse per me. Fu Giulia ad aiutarmi.
Cominciai a disintossicarmi dai farmaci, a ridurre le sedute dallo psichiatra, stavo bene, bene sul serio, con me stesso e col mondo. Le cose più brutte della mia vita, quelle che prima mi portavano ansie e sofferenze cominciavano ora a scivolarmi addosso, a non lasciare che un graffio su un corpo ormai risanato nelle sue cicatrici. L’amore è un miracolo.

<<L’amore è un miracolo>> ripetè Andrea sottovoce con un leggero baluginio negli occhi. Stava forse piangendo? Alessandro non ebbe il coraggio di chiederglielo. Si limitò ad asserire quanto, lui prima, e poi il vecchio, avevano affermato poc’anzi.  L’amore, a quel tempo, era davvero un miracolo.
 I due rimasero in silenzio per un po’, fino a quando il vecchio Andrea riprese di nuovo la parola, palesando un sentimento che lo stesso Alessandro aveva più volte immaginato di suscitare nel suo ascoltatore: raccontava troppo veloce.

<<è che per me certe cose sono accadute davvero in un attimo>> rispose sinceramente il ragazzo che, se interrogato in quell’istante, non avrebbe nemmeno saputo ripetere quando la sua storia d’amore ebbe inizio.

<<Potresti parlarmi del giorno fatidico, no?>>

<<Il giorno fatidico?>>

<<Suvvia ragazzo, il giorno in cui hai detto a te stesso “è lei!”>>


Alessandro ritorse lo sguardo e poi sorrise, reclinò il capo all’indietro e chiuse gli occhi, ricordando.

<<Era la sera del 20 settembre 2014, la luna era un piccolo spicchio d’arancia ed il cielo, cotonato di soffici nuvole, si accendeva in un coro di stelle...>>

mercoledì 15 luglio 2015

Capitolo VI


VI

La incontrai alle venti e trenta al bar Algi, lo stesso della prima volta. Ci sono luoghi e ricorrenze che in una storia tornano e ritornano milioni di volte. Le diedi appuntamento con una scusa: aiutarla a tradurre i classici di greco per l’esame di novembre.
Ci salutammo da lontano, con paura. Agitando la mano nell’aria, come saluta chi va, non chi sa di tornare. Sedemmo a tavolino e nonostante l’orario ordinammo un caffè. In silenzio io presi uno dei libri e lo aprii sulle gambe, La storia di Cherea e Calliroe, quello in cui avevo inserito il foglio che le avrei dato. Quando mi sarebbe tornato il coraggio.

<<Allora… io direi di cominciare dal primo capitolo, con un po’ di volontà potremmo arrivare a metà libro>>

<<Va bene>> rispose Giulia sommessa, <<ma prima ordiniamo un caffè>>

Prendemmo un amaro e una cioccolata calda. Li sorseggiammo in silenzio, con gli occhi bassi. Io sopra il libro, sfogliandone le pagine; lei sulla tazza, sfiorandosi le mani.
Un capitolo del libro cominciava così

la pelle bianca risplendette, lanciando come uno scintillio, tenera era la sua carne, tanto da temere che anche solo a toccarla le si potesse recare dolore.

 Deglutii in un tremito, trattenni un singhiozzo e una lacrima.

<<Cominciamo, su, chè si fa tardi>>

Giulia posò la tazzina sul tavolo e si spostò con la sedia accanto a me, avendo noi due un solo libro di testo. Sudavo freddo.

<<asfalès significa sicuro, vero?>>
<<Sì>>
<<Come faccio a ricordarlo?>>
<<Se ci pensi, in italiano, asfalto significa più o meno la stessa cosa. Serve per rendere le strade sicure, no?>>
Spalancò gli occhi sorpresa, come quando si scopre qualcosa che si era sempre avuta sotto il naso.
<<Quindi questo significa il contrario, insicuro!>> esclamò indicando con la punta del dito una parola poco più sotto.
<<Sì, sei diventata brava, hai visto?>> in un istante Giulia ebbe un sussulto, si spinse in avanti col collo e le spalle, poi si frenò nello stesso momento. Avrebbe voluto abbracciarmi, però non lo fece (e io feci finta di non averlo notato). Continuammo con la traduzione.

Con l’avanzare del tempo il padrone non riusciva a darsi pace, era con tutto se stesso nel tempio d’Afrodite, dove l’aveva incontrata la prima volta. Si ricordava di tutto, del suo volto, dei capelli, di come s’era voltata, di come aveva guardato, della sua voce, l’atteggiamento, le parole. Lo lacrime lo bruciavano. Si poteva assistere alla lotta tra ragione e sentimento.

Il testo sembrava parlare di me. E di Giulia! La sua candida pelle, il mio dolore…

<<In greco pathos vuol dire sia dolore… sia sentimento. Questo me lo hai insegnato tu>>

Non ce la feci più. Strinsi i pugni così forte che sentivo le unghie penetrarmi nella carne della mano. <<Giulia io…>> Le parole mi si bloccarono in gola nel momento in cui tentavano di uscire tutte insieme. Le mie labbra si aprivano al gonfiare prepotente dei polmoni nella voglia di urlarle tutto il mondo in un fiato, ma poi tutto mi si accartocciava nella bocca, permettendo il fuoriuscire solo a stralci di parole. <<Giulia io…>>
Presi subito la lettera, la aprii, senza premetterle nulla cominciai a leggere, secondo i dettami di un cuore tiranno:


Io ti amo. Ti amo perché hai le mani piccole, i denti a coniglio, il collo sottile.
Ti amo perché hai un neo sul naso, ed uno sull’orecchio: il primo nascosto nelle foto, il secondo nascosto dai capelli.
Ti amo perché sei fragile, ti amo perché per strada di notte hai paura di camminare da sola. Ti amo perché indossi le scarpe da strega, e poi ci salti nelle pozzanghere.
Ti amo perché sei bella, ti amo perché non sarai per sempre mia, ti amo perché mangi le carote come un criceto.
Ti amo perché non sai leggere in metrica, perché scambi paralumi per cappelli, perché hai una borsa che pesa più del mio zaino.
Ti amo perché mi chiami Sandrino, Leone, testone, pelato… ti amo perché per me queste sono diventate parole d’amore.
Ti amo perché quando devo incontrarti mi manca il respiro, perché quando mi abbracci mi batte ancora il cuore. Ti amo perché anche nei cessi dell’università tu rimani la ragazza più bella che io abbia mai visto.
Ti amo perché non mi importa delle notti insonni, o della stanchezza, o della paura di poter diventare pazzo. Ti amo perché senza di te la vita non ha senso, e non lo aveva prima. Prima che ti conoscessi.
Ti amo perché quella notte sulla spiaggia, quando ti dissi che mi faceva male il cuore, capii che d’amore ci si muore per davvero, e non solo nei film.
Ti amo perché potrebbe scendere Dio in persona a dirmi di scacciarti via, e io non lo farei. Ti amo perché l’hanno fatto il mio psichiatra, mio padre, i miei amici. Ti amo perché mi vergogno profondamente della mia famiglia e del luogo in cui vivo ma non te l’ho mai detto. Ti amo perché se non ci sei tu non hanno senso le cose, non sono belle le poesie, non ha motivo voler essere un poeta. Eppure darei via ora il greco, il latino, e la poesia, solo per essere un po’ più forte, solo per poterti lasciare ogni giorno la convinzione e la certezza che io sono il tuo pilastro, che se tu cadi io sono lì, pronto a sorreggerti. Ti amo perché se essere forte significa prendere dei medicinali allora va bene, saremo degli innamorati pazzi! Nel verso senso del termine.
Ti amo perché queste cose dovrei urlartele in faccia e stringerti il petto su un muro, ti amo perché nonostante tutto tu mi ascolti lo stesso.
Ti amo perché non ho mai pensato di tradirti, nemmeno per dimenticarti, e ogni qualvolta ci provavo mi sentivo in colpa, poi non capendone il motivo mi mettevo a piangere. Il motivo è che ti amo, ancora, sempre.
Che mi sono innamorato di te come nel sonno, senza accorgermene, tutto d’un tratto. Ti amo perché non c’è amore in quello che studio, nelle cose che faccio. Ti amo perché quando mi chiedo dove sia finito tutto quell’ardore con cui mi cimentavo prima in quelle azioni, mi trovo a rispondermi che ora è tuo, e che non potrà più esserlo di altre persone così come non lo è di altre cose.
Ti amo perché spesso mi fai male. Ti amo perché quel giorno sono impazzito di gelosia e mi sono chiesto “come ha potuto farlo?! Come ci è riuscita?! Come si fa?”. Ti amo perché al contempo ci impazzisco e non mi importa niente. Ti amo perché stasera ti chiederei di andare a dormire fuori, portandoti i tuoi libri, facendo greco tutta la notte (ho tutta la cartella riempita di libri). Ti amo perché te lo sto chiedendo, perché voglio guardarti studiare in silenzio, voglio sentirti balbettare un esametro, un distico, un tetrametro. Ti amo perché voglio guardarti dormire e accarezzarti mentre lo fai, sfiorarti le labbra, il collo ed i capelli. Ti amo perché non vorrei fare altro, perché ti bacerei teneramente al risveglio dicendoti “siamo ancora qui, siamo sempre noi. Morbosi, impauriti, pazzi, scombinati… non possiamo essere diversamente da così ma io ti amo. Ti amo. Ti amo. Ti amo.” E poi aggiungerei “Amore mio, ho paura, però sai… io un po’ nei film in fondo in fondo ci credo, e non può piovere per sempre sulle nostre teste, non è giusto che sia così, non è giusto il dover essere messi alla prova ogni giorno, perché anche se non ce la faccio più, io voglio provarci fino a quando avrò fiato nei polmoni e forza per tenermi in piedi. Non c’è un’altra lotta che valga tanto al mondo. Non c’è nient’altro per cui valga la pena lottare”.


Giulia proruppe in un pianto liberatorio. Io la baciai sulla fronte, abbracciandola.

Tornammo insieme. Quella volta giurammo che sarebbe stato per sempre.


martedì 14 luglio 2015

Capitolo V

V

Quattro mesi dopo io e Giulia eravamo seduti insieme su una panchina all’aperto, nei pressi dell’università. Avevo cominciato i corsi da circa due settimane e l’avevo già incontrata più volte. Mi stringeva forte le mani, mi guardava negli occhi e piangeva. Io non riuscivo a dirle niente. Lei non riusciva a dirmi tutto. Era la panchina sulla quale, quasi un anno prima, le avevo detto che ero innamorato di lei. Su quella stessa panchina, ora, lei lo ricordava a me.

<<Alessandro, ti prego, torna con me. Io ne ho bisogno. Ne usciremo insieme, io e te. Perché ci amiamo. Perché l’amore è forte. Ma soprattutto perché lo vogliamo. Alessandro, ti prego, torna con me.>>

L’amore non ha dignità, è fatto di lacrime e di colpe. Di nasi sporchi e occhi rossi, di urla e di bava. Tutto attorno la gente ci guardava, come a dire <<Speriamo facciano pace>>. Io la pace la cercavo dentro me, in quel vuoto che Giulia tentava di colmare a cumuli di rabbia, a pugni, a schiaffi.
<<Alessandro! Riprenditi! Noi dobbiamo stare insieme! Io e te! Lo capisci?!>>
Urlava col terrore di chi ha perso qualcosa di importante, singhiozzava, affannava, rantolava. Le parole le risalivano attraverso la gola come conati di vomito, gonfiandole gli occhi e le gote, schiacciandole il petto.
Le dissi che non potevo permettermelo, che la mia attuale situazione psicologica non mi consentiva di avere un rapporto normale. Mi sentivo sporco, meschino. Addirittura convinto che quel che le dicevo era vero, che probabilmente io non ero fatto per un rapporto di coppia, che forse avrei dovuto vivere da solo, e da solo combattere i miei demoni.
Non mi rispose più, strinse i pugni, calò il capo. Rimase una manciata di secondi così, immobile, scarmigliata, desolata. Era passata dalla rabbia alla rassegnazione, ma un pizzico d’ira l’era rimasto nel volto, ora rosso, ora bianco. Non riusciva a liberarsene e così me lo scoccò in bocca prima di scappare: un bacio arroventato che volò con la veemenza di un dardo, tale era il dolore che recava.
Non disse niente, non un addio, non un fiato. Era finita, questa volta davvero.


Passai i giorni successivi a quell’incontro a casa. Non uscivo mai, nemmeno per distrarmi. L’unica eccezione a questa abitudine fu il giorno del mio compleanno, il 21 ottobre, in cui i miei mi convinsero che era giusto festeggiare almeno quello, per trovare la forza di ricominciare, con l’anno nuovo. Forse avevano ragione.
La settimana successiva, a partire dal giorno 22 ottobre 2013, la passai a tormentarmi sul perché Giulia non mi avesse fatto gli auguri, nemmeno per messaggio, nemmeno tramite internet. Ci era riuscita, mi aveva cancellato per davvero. Finalmente. Aveva smesso di soffrire per me, sporco, disonesto e tormentato. Ero felice per lei, dovevo essere felice per lei. Però perché io non ci riuscivo? Perché la pensavo ancora? Perché IO non ero felice?!
Tante domande che trovarono infine una sola risposta, una notte, in un sogno; e poi in due notti, in tre, in quattro, in sogni sempre ricorrenti: Io l’amavo. Senza troppi giri di parole, l’amavo. L’amavo e basta.
Tutto a un tratto non ce la feci più, e un bel giorno, un pomeriggio come tanti, esplosi, letteralmente esplosi, scoppiai in un pianto a dirotto, non riuscivo più a smettere e non bastarono tutti gli antidepressivi del mondo a porvi fine. Lorazepam, anafranil e mirtazapina non potevano più (se mai poterono davvero) placare dentro di me la fiamma dell’amore. Mi decisi, l’avrei incontrata quella sera stessa e le avrei detto tutto. Ancora una volta alla maniera dei vili e dei deboli. Scrivendole una lettera (la quale ancora conservo con me).

Quella sera capii cosa significasse essere poeta, la scissione eterna tra il saper vivere e il poter scrivere. Quella sera capii che era un fardello, il peggiore dei doni di Dio. 

domenica 12 luglio 2015

Capitolo IV

IV

Intanto l’amore correva, più in fretta di noi, più in fretta di me, che nella corsa avevo perso senno e ragione. Non riuscivo a dormire, a studiare, non mangiavo nemmeno. Capii quanto era falso quel luogo comune che fa di tutti gli amori una stupida allegria condivisa. L’amore è un uragano. L’amore ti devasta. Ti scuote dalle fondamenta e sradica ogni minima certezza che tu possa avere. Io lo capii, ma non riuscivo a risalire a galla, non sapevo riprendermi. Fu così che mi ammalai, che persi me stesso e finii in depressione. Pochi mesi dopo persi anche lei, fui io a scacciarla, ossessionato da lei, malato di lei. Nel terrore che quell’unico rimasuglio di ragione rimastomi mi regalava: il rischio di affondare insieme. Fu questo l’unico motivo per cui non le tesi la mano, per cui non le chiesi di salvarmi. La paura, forse una forza più potente dell’amore stesso.
Fui due mesi in terapia, assunsi ansiolitici, antidepressivi e sonniferi. Un velo di Maya i cui brandelli porto ancora adesso sul capo. Mi distruggevo nel desiderio di salvarmi. Era paradossale. Era terribile. Non passò una notte in cui non la sognavo, il suo sorriso innocente, le sue lacrime di dispiacere. Era un fardello orribile quello che mi caricavo indosso da solo: La consapevolezza di fare del male alla donna che amavo, l’incapacità di smettere. Avrei voluto morire.
La terapia cominciò col fare effetto molto tempo dopo dal suo inizio: la ragione ritornava, con essa la voglia di studiare, gli esami, e infine il sonno perduto. L’unica cosa che stentava a cambiare era Giulia, la sua immagine, la sua figura che ogni notte calava dal cielo nei sogni. Io ero ancora profondamente e perdutamente innamorato di lei. Ma che fare? Come agire? Il dubbio mi tormentava più della malattia. Era forse una mia colpa quella di non riuscire a coniugare amore e vita? Come diamine facevano gli altri a costruire rapporti su rapporti e continuare la loro, di vita, inseguire i propri sogni, profondere l’impegno necessario al tutto? In cosa erano così dannatamente superficiali, nell’amore o nella vita? Forse in entrambi, fatto sta che non amavano, o che non amavano come amavo io. Di questo ne ero certo.
Ora potrei aggiungere anche che Giulia era la mia prima ragazza, la prima fidanzata, il primo vero amore. Perché non sono amori le cotte liceali, gli amori estivi e quelli occasionali. Non sono veri amori quelli facili, quelli del “proviamoci”, quelli del compromesso, come niente è vero che non costi sudore, sangue e fatica. Possa essere anche il più stupido rapporto di amicizia. Se non richiede nulla, mai… non ne vale la pena.
Ebbene potrei aggiungere anche che Giulia era la mia prima ragazza e caricare il nostro amore di quella sciocca ed ostinata convinzione per cui ogni primo amore è necessariamente difficile e sofferto e maledetto… condannato alla fine.

Ogni-primo-amore. Certo. Come se ce ne fossero secondi, terzi, quarti e penultimi di amori. L’amore è unico, questa è un’altra cosa che ho imparato col tempo. Possa arrivare subito o tra cent’anni è sempre il primo. Non ci sono alternative. Nessuno mai ne ha cercate. 

venerdì 10 luglio 2015

Capitolo III

III

Il mese dopo eravamo già fidanzati, e lei mi aveva regalato, di già, all'incirca dieci peluches e una dozzina di libri da leggere, i suoi preferiti. Io, per non restare indietro col passo, avevo ricambiato con  altrettanti pupazzi e una quantità mastodontica di libri, i miei preferiti, e quelli che ancora dovevo leggere ma sapevo per certo che fossero belli. Eravamo in quella fase in cui l'amore è insicuro di sé, e immaturo, e speranzoso, cerca la fuga e il riparo allo stesso tempo. Io a volte riuscivo a vedere nei suoi occhi una certa tristezza profonda, abbandonata nei recessi del passato, ma che spesso lampeggiava smeraldina nel guizzo dei suoi occhi verdi. Quando le dissi per la prima volta che mi ero innamorato scoppiò a piangere. Non volle più parlarmi per tutta la giornata. Mi resi conto di aver sfondato un muro, credo. Le avevo ricordato l’abisso. Però pochi giorni dopo fu lei a dirmi che mi amava, e lo fece sorridendo. Giulia era un mistero eccezionale. Tanto bello quanto imperscrutabile.
Al secondo mese io le scrissi una poesia, dopo la nostra prima notte insieme.
Al terzo mese le regalai un anello di fidanzamento: un piccolo brillante su un sottile cerchio d'argento. Ben oltre il massimo che le mie finanze potessero permettermi, ma l'amore non ha limiti, è risaputo, e non sono certo io a doverlo spiegare.
Lei pianse, poi rise, si commosse, e infine si fiondò contro di me in un abbraccio. Disse che sarebbe voluta restare accanto a me per tutta la vita. Dio quanto la amavo. Dio quanto mi manca.
All'anello le aggiunsi altre tre poesie, una per ogni mese che avevamo passato insieme. Ne ricordo a memoria solo una, perché poi la pubblicai su un giornaletto di un concorso:

Sulle tue guance dorme il sole
quando entra dalla finestra
e ci scalda le lenzuola.
Il tuo capo è un cerchio dorato
e i tuoi capelli diventano
grano odoroso
e un dardo è il tuo naso.

Sulle tue guance dorme il giorno, amore
che si alza con te
quando schiudi le palpebre
e il giallo dei tuoi occhi
si mischia col giallo del sole
in un’estasi cromatica.


Quella stessa sera cenammo fuori casa, mangiammo fino a scoppiare: pizze, panini, e gelati artigianali. Amore a volte può significare avere un'indigestione insieme. Amore quella volta significò passare tutta la notte mano nella mano su un letto a castello di un piccolo albergo, senza neppure avere la forza di sfiorarci con un dito.

mercoledì 8 luglio 2015

Capitolo II

II

La vidi per la prima volta il nove febbraio del 2013, era seduta ad un bar e strappava pagine dal libro di filosofia per farne dei filtri. L’appuntamento glielo avevo dato io, tramite amici; alle 18.30 al bar Algi, la paradossalità di un nome che era formato dalla prima sillaba dei nostri due messi insieme. Giulia e Alessandro… Giulia e Alessandro (quanto mi manca sentirli ripetere).
Quel giorno aveva indosso un vestito lungo, nero, che le copriva le gambe fin sui ginocchi e  un paio di ballerine dello stesso colore abbinate ad un simpatico cappello  francese.
<<Alessandro!>> mi disse impulsiva quando le apparvi di fronte. Non <<Tu devi essere…>>, <<Ciao, sono Giulia, tu sei…?>>. No, Alessandro. Un nome secco, diretto, detto con l’irruenza della sicurezza, con la sfrontatezza della gioia; così come irruenta e gioiosa era tutta la sua persona.
<<Ciao…> le risposi io, <<tu sei… Giulia>> soggiunsi con un po’ di finta incertezza, non sapendo come reagire al suo modo di fare. Sorrise. <<Siediti, dai>>.
Allora mi sedetti. In un modo un po’ macchinoso.
<<Hai un accendino?>> Subito ripartì con le domande.
<<Sì>>
<<Allora. Sei anche tu a lettere classiche?>>
<<Sì>> le risposi allo stesso modo, mentre l’aiutavo ad accendere.
<<Come mai hai scelto lettere?>>
<<Lo sai che è una domanda terribile, vero?>>
<<Lo so>>
<<Per fortuna!>>
<<Però rispondi lo stesso>> disse in concomitanza alla mia frase.
<<Va bene… allora… è… come dire… ho scelto lettere classiche perché sono bravo col greco>>
<<Modesto!>> disse subito lei.
<<… e perché ho un sognoefammifinirelefrasi>> le risposi tutto difilato.
<<Un sogno?>>
<<Un sogno.>>
<<Vuoi insegnare?>>
<<No>> dissi con una punta di mistero, riponendo l’accendino nella tasca destra del giubbotto.
<<Vuoi diventare professore universitario?>>
<<No>>
<<Vuoi…>>
<<Voglio fare il poeta>>
<<…>>
Ci furono secondi di silenzio e poi
<<Oddio, eccone un altro>> sbuffò improvvisamente portando la mano alla fronte <<vuoi forse vivere sotto i ponti?>>
<<No>> risposi secco.
<<Allora cambia aspirazione>>
<<Io ci riesco>>
<<Sei pure testardo>>
<<Io lo so.>>
<<Sai cosa?>>
<<Che ci riesco>>
Quando capì che comportandosi in quella maniera non sarebbe servito a nulla, mutò improvvisamente atteggiamento, con una naturalezza che solo le donne sanno assumere. Mi guardò con aria di sfida e disse <<Allora sentiamo, signor poeta, come fai a saperlo?>>
<<Oh, è ovvio. È il mio destino>> le dissi gongolando.
<<Il destino non esiste, Alessandro>>
<<Sì che esiste>>
<<No>>
<<Il destino esiste, Giulia.>> ripresi io con tono improvvisamente serio, <<ne scrivono e ne sono convinti i più grandi scrittori esistiti. Ne parla Omero, come sai, Esiodo, Virgilio… e poi Machiavelli, Dostoevskij, Bukowski. Giusto per citarne alcuni.>>
<<Persone che hanno raggiunto il successo>>
<<Esatto>>
<<E che hanno trovato una giustificazione alla loro realizzazione>>
<<No>>
<<Sì>>
<<Sei cinica>>
<<Realista.>>
<<Cinica.>>
<<Sognatore.>>
Eravamo due mondi diversi, destinati inevitabilmente a scontrarci. Io asociale e solitario per natura e lei, una folle squinternata. Forse eravamo destinati a restare insieme per sempre.
<<Fatum est ordo seriesque causarum>>
<<Fata volentem ducunt, nolentem trahunt>>
<<Seneca?>>
<<No, Alessandro Neri>>
<<Cretino.>>
Sorrise. Fu un attimo; il lieve inarcarsi di una ruga sul labbro, ma lo fece. Per la prima volta. Io non l’ho più scordato.
<<Hai i denti a coniglio!>> le feci sorpreso.
<<Lo so, e sono bellissimi>> rispose lei con la finta alterigia del vezzo.
<<Bellissimi poi… potrei scriverci una poesia, sai? Sono molto bravo, posso scrivere di tutto>>
<<Di tutto?>> disse facendo scivolare la lingua sui dentoni <<E allora vediamo questo tutto, mio caro>>
Le chiesi una penna ed un foglio. Strappò un altro pezzo del libro, e poi raccolse il portapenne dalla borsa.
<<Prego>>
<<Allora… mmh, dammi solo un paio di minuti che… Sì, ecco.

Denti a coniglio
finestre semiaperte
di un balcone vermiglio.

Un quinario con due settenari in alternanza di accenti pari e dispari! La conosci la metrica, vero?>>
<<Tu sei pazzo>> Disse con gli occhi spalancati scandendo ogni singola sillaba.

Io non le risposi. Aveva ragione dopotutto. Ero pazzo, già pazzo di lei. 


lunedì 6 luglio 2015

Capitolo I

I

Il viale era lastricato di foglie marroni; tutto intorno gli alberi, seminudi, tendevano le esili braccia nel vento, ove l’Autunno con dita di carta li spogliava degli ultimi veli. In cielo c’era la luna, adorna di pallido manto, e su una panchina, all’ombra maculata di un faggio, Alessandro attendeva il bus delle nove.
Benché fosse ancora venerdì, in strada non v’era nessuno, e il rumore del vento che in piccoli gorghi alzava al cielo mucchi di foglie accartocciate risuonava lungo tutto il viale. I lampioni ai lati dei marciapiedi avevano preso da poco a illuminare la strada e la luce che emanavano era ancora pallida e soffusa, mentre al di là dei grandi cancelli, le finestre delle villette rosseggiavano come piccoli fuochi nel buio della sera.
Alessandro sedeva a gambe incrociate, con lo sguardo volto agli alberi. Aveva le braccia conserte e il capo chinato in avanti. Indossava un lungo cappotto nero, di stoffa, e sul naso portava un paio di occhiali da sole, regalo di una vecchia conoscenza.
Se ne stava lì in quella posizione ormai da parecchio tempo, e circa ogni dieci minuti, in un gesto meccanico ripetuto chissà quante volte, fissava l’orologio che portava sul polso sinistro; poi ritornava con lo sguardo nel vuoto, senza mai cambiare posizione. <<Sono arrivato troppo presto>>, diceva ogni volta tra sé, <<Forse dovrei alzarmi>>, <<Forse è meglio tornare a casa>>.
 <<Giuro questo è l’ultimo>>  soggiunse infine in un lungo e profondo respiro, <<Se non è nemmeno in questo, significa che non verrà>>.
Passarono circa quaranta minuti. Il bus arrivò alle nove e venti, quando ormai le luci dei lampioni avevano preso a illuminare l’intera strada, in una lunga scia perlata che continuava a perdita d’occhio fino all’incrocio con la ventiduesima. Gli alberi sembravano arancioni, rivivificati, pur se con poche decine di foglie. E la luna, ora perduto il suo ruolo sulla scena, si copriva pudicamente dietro una lunga nuvola grigia. Il vento aveva cessato di soffiare.
L’autoveicolo sostò per una manciata di secondi alla fermata, aspettò che ne uscissero un’altrettanta manciata di persone, un ragazzino, due donne, un uomo, e poi ripartì; enorme scatolone giallo che rombava nel silenzio della notte.
Alessandro, seduto, si guardò dapprima attorno, ancora senza cambiare posizione, con fare circospetto, poi si alzò in piedi e sporgendosi sulle punte cercò di guardare fin sul fondo del viale, prima da una parte, poi d’all’altra. Nessuno. Lo stesso scatolone giallo non era ormai che un puntino indistinto nella notte. <<Sarà per le dieci>>, si disse sconsolato. Poi sedé di nuovo.
Nel riprendere posto notò con sorpresa che un’altra persona sedeva adesso accanto a lui; benché stranamente non se ne fosse accorto: era un anziano signore in impermeabile, con un elegante copricapo in pelle e una lunga sciarpa beige che scendeva fin sulle gambe.
Gli scambiò un sorriso di circostanza, come di quelli che si fanno quando non si ha voglia di parlare; poi si aggiustò il cappotto, guardò l’orologio ed incrociò braccia e gambe. Il vecchio tuttavia, in maniera volontaria o forse solo perché distratto, non colse il desiderio del ragazzo, al quale, dopo aver ricambiato il sorriso, mostrando una fila di trentadue denti bianchi e perfetti, rivolse subito la parola.
<<L’autunno quest’anno è giunto particolarmente freddo>>; <<La brina ha completamente coperto i parabrezza delle auto parcheggiate>>; <<Domani pioverà. Me lo sento nelle ossa>>; borbottò nel solito tono pseudolamentevole che usano i vecchi quando hanno intenzione di attaccare bottone; frasi che Alessandro finse del tutto di non sentire, non avendo quelle una connesione precisa né un interlocutore ben individuato. L’ostinato compagno di sosta allora finse un piccolo colpo di tosse per attirare la sua attenzione, poi si schiarì la voce e gli chiese come si chiamasse. <<Alessandro>> rispose lui in maniera concisa, poi ritornò in silenzio, ci pensò un po’ su, e credette che quella breve risposta era stata forse troppo sgarbata; così aggiunse uno scontato <<E lei?>>
<<Io mi chiamo Andrea>> rispose il vecchio tirando fuori dalla tasca della giacca un paio di guanti foderati in pelle che comodamente calzò sulle mani, <<Abito lì di fronte>> disse, indicando con un cenno del capo una finestra a tendine rosse <<Sei anche tu del parco? Non credo di averti mai visto>>
<<Oh no, no>> ripetè due volte il ragazzo << Io sono di un’altra zona della città.>>
<<Allora cosa ci fai qui? Aspetti qualcuno?>>
<<Più o meno…>>
<<Più o meno?>>
Impacciato più che infastidito Alessandro non sapeva come dare un senso a quell’affermazione, che, buttata in mezzo così, effettivamente non significava proprio niente. A dirla tutta Alessandro sperava di aspettare qualcuno, e nel frattempo attendeva che quel qualcuno arrivasse. Ma un conto è spiegarlo a te, lettore, un altro era spiegarlo al curioso Andrea che, confuso, fissava Alessandro come in attesa di un chiarimento.
<<Beh, è come… sa… Lei ha mai creduto nella notte delle stelle cadenti?>>
<<La notte di San Lorenzo…>> Andrea annuì senza pensarci, per inerzia, cercando di cogliere il filo conduttore del discorso del giovane.
<<Dunque, ecco… Quando si fissano gli occhi nel cielo a cercare una stella, e poi si resta lì fermi imbambolati a scrutare il buio, e si spera di coglierne almeno una perché altrimenti non avrebbe senso che si chiami notte delle stelle cadenti, ecco, in quel preciso momento, in quell’istante che precede l’apparire della scia luminescente, si spera. E nello stesso preciso istante si aspetta.>>
<<Io spero di aspettare qualcuno.>> Riprese dopo una breve pausa.  <<Diciamo che spero arrivi una determinata persona, pur senza avere un appuntamento preciso.>>
<<Mmh>> mugolò Andrea ancora più curioso ma convinto di aver finalmente afferrato il filo del discorso, che trapunto di cieli stellati non poteva che essere unico: l’amore.
<<Questa persona –disse calcando l’aggettivo femminile che accompagna il nome con la tipica astuzia di una vecchia volpe– passa spesso di qui?>>
Alessandro fu colto da una repentina e inattesa scossa emotiva che gli attraversò tutto il corpo per poi sfociare in un sorriso rassegnato.
<<Lei abita qui.>>
Il vecchio sorrise di rimando e per sollevare quel velo di mestizia che lieve si posava ora sul ragazzo come un mucchio di foglie secche sulla strada inumidita, riprese col discorso precedente.
Prima però diede una strattonata ai suoi guanti, quello sinistro, poi quello destro, e con ambo le mani portò una gamba sull’altra, accavallandole.
<<Sapevi che in latino aspettare e sperare sono la stessa parola? I romani dicevano Exspecto, e intendevano entrambe le cose. Proprio come te in questo momento.>>
<<Exspecto>> Lo ripeté sussurrandolo in un alito che sfumò nella bianca nebbiolina del vento gelido.
<<Lo so.>> <<Le sembrerà strano ma lo so>> Disse a voce bassa Alessandro. Poi tirò un lungo e profondo sospiro <<Me lo ha insegnato Lei, sa? Studiava Lettere. Amava il greco, il latino. Amava la letteratura e la musica classica. Amava le lingue del mondo. Amava me. Diceva che il mio nome rispecchiava tutte insieme le sue passioni: Alessandro Magno, Aleksandr Puskin, e infine Borodin. In quest’ordine preciso.>>

Andrea sorrise. Ricordò. Sorrise di nuovo. L’amore è una favola vecchia che porta nel grembo le storie di tutti. Quella che adesso Alessandro gli raccontava era la storia di Giulia. La storia di Giulia e Alessandro.