venerdì 9 ottobre 2015
martedì 15 settembre 2015
Capitolo XIV
Capitolo XIV
Mi hai chiesto di incontrarci
sono passati sei mesi. Sei mesi in cui non ho avuto notizia di te, niente,
neppure uno scarabocchio, un segnale di fumo, qualcuno che mi dicesse che stavi
bene. I tuoi amici hanno smesso di salutarmi e tutta la città sembra invece
urlare il tuo nome, sento il tuo odore nell’aria, i camini effondono la loro
fuliggine nel cielo e i tetti rossi divengono neri come il dolore. Delle volte
parlo ancora con te, quando devo prendere una scelta importante e quando la
mattina devo scegliere il vestito. Ogni spazio vissuto da noi mi trasmette le
immagini belle, quelle delle nostre primavere, quelle dei nostri sorrisi. Sono
ritornata in Croazia, sai? Ho ripercorso tutte le tappe che abbiamo fatto
insieme. Il primo giorno quando abbiamo litigato su quella insopportabile
salita assolata, il molo dove l’acqua cerulea diveniva specchio dei nostri
corpi intrecciati e adagiati eleganti su di un vecchio pontile marrone, sono
andata nel ristorantino che piaceva a te, dove mangiavi gli gnocchi, ricordi?
Il brivido di provare nuove cose o piatti tipici non è stato mai il tuo forte,
sono stata poi nel pullman, quello che per colpa mia ci ha condotti per tutta
la città. Ho vissuto tra l’illusione che tu eri affianco a me e la
consapevolezza che non c’eri. Nonostante queste immaginazioni che sono il
proseguimento irreale della nostra storia a cui non mi sento di dover
rinunciare ho costruito una vita, nella quale tutto sommato ho trovato un
equilibrio, ma non sono felice. Ed ora invece immersa tra le lacrime, coi
capelli sparsi e nodosi, cammino avanti e indietro per la stanza e subito
scelgo. Scelgo di vederti, non potrei mai fare diversamente. Alessandro io ti
amo, ancora e per mille anni. Non conosco altre parole che siano le nostre,
altri corpi abbracciati, altri sguardi, altre risate, altri litigi, non conosco
una vita senza te. Sei mio perché insosistituibile, perché la tua fragilità è
la naturalezza che voglio. Io mi ci perdo nei tuoi occhi, io per te muoverei il
mondo, sposterei montagne, bloccherei i corsi dei ruscelli, io sarei Alcesti
per te. Lasciati amare, lascia che mi prende cura io di te, lascia che raccolga
la tua persona e rendimi tuo, farò anche io altrettanto, mi farò curare da te,
nelle mie nostalgia e nei miei dolori.
Ci vediamo alle diciotto, questa
è la stagione dei tulipani bianchi.
Giulia.
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giovedì 10 settembre 2015
Capitolo XIII
Ieri sono andata nei pressi dei giardinetti di
casa mia, quelli pieni di giochi per bambini, quelli con le margherite giganti
che fungono da telefono senza fili. Ci sono andata e ho gridato forte: ti amo,
come eravamo soliti fare noi, Alessandro. Una volta, non appena tu iniziasti a
guidare, io ti comprai una piccola macchinina e per rendere la cosa più tenera,
forse quel giocattolino era un dono troppo misero, volevo nascondermi in quei
giardinetti, t’avrei inviato questo messaggio “cercami dove i fiori diffondono
il nostro amore’’. Poi feci tardi e non lo feci. Io vorrei rendere ogni
avvenimento della tua vita il più bello di sempre, e ti chiedo scusa se non
l’ho fatto, se non ti ho capito, se presa dalle cose che dovevo fare, ho
trascurato le tue esigenze. Quanto
vorrei fossi qui tra le mie braccia, quanto vorrei baciarti, quanto vorrei
piangere, come sto facendo ora.
Giulia
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domenica 6 settembre 2015
Capitolo XII
XII
Avete
mai amato così tanto una persona da piangere di commozione quando la stringete
tra le braccia… e piangere, ancora, per ogni sua assenza, minima, giornaliera…
eppur sempre smisurata, incolmabile?
Avete
mai amato davvero? Al di là della retorica, stupida, meschina e sempre banale,
mai vera o genuina. Al di là di ogni convenzione, al di là dell’abitudine, del
bello, del piacimento, del puro e limpido ideale di bene?
Amare
è soffrire: Mai fu inventato binomio più esatto. È la giusta conseguenza che deriva
dall’abbandono di ogni certezza, di ogni convinzione che sia mai stata
posseduta dal singolo. Amore è l’estremo atto di altruismo, di eroismo, di
letteraria tragicità. Amore è rifiuto di se stessi, degli altri, del mondo.
Amore è lotta, scontro, battaglia… mai guerra. Amore è. E non sa avere. Amore
muore, risorge, cade, muore, risorge.
Amore
non ce la fa, e resta sempre in gioco.
Amore
non vuole, eppure è sempre in atto.
Amore
non basta, e non chiede abbastanza.
Amore
non chiede.
Il
ramo secco della stagione invernale, flebile, cadùco, è forse la
rappresentazione più chiara di Amore, e non va spiegato. L’amore non si spiega.
L’amore è metafora, è astratto, è vuoto (non vacuo).
Amore
è insito nel concetto di passione; è passivo, introverso, sofferto. Davvero
molto simile al patire, l’amore sopporta. Però è paziente, non si stanca, mai.
Arriverebbe
sul punto di uccidere, l’amato e l’amata, ma non se stesso. L’amore non è
autodistruttivo, non in senso stretto.
Amore
è tutto, e niente. D’amore possono parlare tutti, e nessuno. Per amore un uomo
nasce, per amore (a volte) un uomo muore. Io per amore sono impazzito, ad
esempio (e non sono neanche il primo). Ho provato a spiegarlo, a dargli un
senso, un nome, un volto deciso. Ma l’amore non si decide, l’amore non si
capisce. Ho perso tutto.
Primo mese di terapia in Villa Angela. Settembre 2015.
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venerdì 4 settembre 2015
Capitolo XI
XI
Eppure credevo d’averti
perso. Invece no. Io non so più chi sei, dove sei, eppure ho ancora la certezza
di essere tua. Ero convita che fosse il solito periodo di allontanamento, ti ho
scritto miliardi di lettere e non ho mai ricevuto alcuna risposta. Come puoi
farmi questo? Come puoi riempire la mia esistenza delle più rigogliose speranze
e promesse e poi sparire nel nulla? Non è l’orgoglio di una donna abbandonata a
scrivere, ma un cuore lacero e straziato. Sei andato via così, senza darmi la
possibilità di replicare e ora non dovrei neppure scriverti. Io non ci credo
più, io non conosco più il tuo nome, non riconosco più le sillabe delle tue
parole e invece tu…
Tu eri la speranza che io
avevo sepolto. Ti conobbi in un bar di cui non ricordo il nome, mentre tu
ricorderai sicuramente, dialogammo a lungo, ricordi? Davo risposte veloci e
distaccate, ma avevi un bel sorriso. Avevo un cappello alla francese e una
maglia a righe, facevo i filtri per le sigarette con la copertina di un libro
che detestavo, la cui materia sarebbe divenuta anni dopo l’oggetto della mia
tesi di laurea in lettere classiche, all’epoca ancora non lavoravo e avevo
cinto me stessa con mura assai spesse. Nessuno doveva conoscere il mio segreto,
nessuno le mie lacrime per la morte di una persona avvenuta tanto tempo fa,
nessuno poteva e doveva amarmi eccetto me stessa. Cosa volevi, uomo alto e con
le mani lunghe da pianista? Perché dopo
il caffè non mi hai baciata? Te ne andasti all’improvviso e io a stento ti diedi una
fredda stretta di mano e poi corsi via, veloce, dio sa quanto mi sarei voluta
voltare e quanto avrei voluto che mi inseguissi, non ho ma avuto il coraggio di
dirtelo. Fui tua in una notte di
primavera, fui tua in una fedeltà che ti serbavo pur non concedendomi
completamente, e tu ne soffrivi. Poi
l’amore tira le sue frecce e non appen fui distante da te, un desiderio puro mi
conquistò. Fu allora che capitolai, e dovetti ammetterlo a me stessa.:’’ Giulia
è crollata miseramente’’, quanto mi odiavo. Ero pronta a cedermi proprio quando
tu avevi un’idea di me sbagliata, riflesso purtroppo di quanto io ti avevo
indotto a credere. E proprio nel momento
in cui io volevo regalargli la mia debolezza tu ti ammalasti. Continuavo a
cedermi nelle notti e nelle mattine d’agosto, gli abbracci erano stanchi e
teneri, nelle notti afose rimanevano solo gli orgasmi a tenerci insieme. Io non
riuscivo a recuperati e tu, io lo vedevo, io lo sapevo, nonostante tutto non
riuscivi a guarire. Alternavo nel mio animo momenti di lucidità in cui ero
convinta che tu mi amassi, a momenti di vacillante follia e dolore in cui
attribuivo il tuo distacco ad un cieco egoismo. Io ti amavo, mi scolpivo nella
tua essenza e pure non riuscivo ad
alzarmi, non smettevo di precipitare in quel baratro di assenza di me stessa,
smisi di mangiare e mai smisi di piangere. Mi lasciasti il trenta agosto, e fu
da quel giorno che io iniziai a soffocare, probabilmente non ho mai sofferto
tanto nella mia vita. Arrivai a credere
che fossi morto, ma in quegli abbracci dati in alcune ore prestabilite nei
giorni caldi di settembre tornai a crederci. I conti non potevano essere
chiusi, non potevi essere morto, Alessandro, perché io ti avrei tenuto in vita io grazie al mio
sentimento. Quanto ero immatura a pensare questo, e quanto ero pura: io ero convinta,
pur avendo il mondo contro, che io ti avrei salvato, ti avrei portato a me,
perché tu eri mio, e soprattutto perché quando le tue mani erano nelle tasche
dei miei jeans era sempre la cosa più bella del mondo. Io credo e credevo nella
forza totalizzante di questo sentimento, ed ho imparato a credere che delle
volte ci si perde. I rapporti umani sono ciò di cui abbiamo maggiormente
bisogno e ciò che ci porta irremediabilmente a perderci, a dimenticarci di noi
stessi, i legami richiedono l’intervento dellla ragione prima o poi. Essi sono
un volo da un polo ad un altro: Oggi
provo a guardare l'amore non come il frutto di un rapporto binario tra l'odio e
l'amore. Provo oggi a vedere l'amore come il frutto di un processo di un
continuo movimento, come una spirale formata da due corpi che gira sempre.
Nella quale delle volte i corpi si muovono organicamente e sinergicamente,
altre invece ciascuno tende ad
allontanarsi pur non perdendo mai quel punto di contatto. Ecco vedo l'amore
come quel sentimento per il quale riesco ad essere perfettamente
nell'altro, pur se l’altro è distante. L'amore è proprio di due essere viventi
che mai riescono completamente a compenetrarsi ma ciononostante tendano
necessariamente a farlo, pur errando.
L'amore muove il mondo perché comporta necessariamente il cambiamento, perché
determina l'errore e comporta la sua risoluzione. L'amore è il solo e unico
elemento che consente la vita, non importa verso chi o che cosa, basta che ci
sia pur in questa forma l' errore e la risoluzione.
Spero che m'amerai nonostante gli errori è forse la cosa più reale che si possa dire. Io avevo e tutt’ora ho questa idea d’amore e nei giorni dimentichi di noi stessi cercavo di affermarla con prepotenza, invano. Lasciavo il cortile dei nostri incontri tra le molte lacrime, promettendo a me stessa che non sarei ritornata lì, cercavo di farmi coraggio, tentavo di convincermi che non eri la persona giusta, e che la vita era troppo breve per sprecarla così come facevo. Provavo ad allontanarti ricordando quelle sere orribili d’agosto, quando avendo perso tutti e due il sonno, e giacevamo immobili nel letto, cercando di convincere l’altro che Morfeo ci avevo conquistato. Una sera fra tante tu ed io litigammo, tu mi prendesti il polso, e dicesti che dovevo dormire, che dovevo smettere di piangere, che il giorno seguente avremmo dovuto studiare, io mi alzai e lasciai l’anello che mi avevi regalato sul tavolo, minacciai di andarmene, cosa che non mi impedii di fare. Non lo feci, non mi allontanai mai, neppure durante i litigi per strada. A distanza di anni guardo a questo periodo con sorriso, con la tenerezza, immaginando due ragazzi che provavano per la prima volta l’amore. Pur nella sofferenza e nell’esagerazione che avevano mostrato l’aspetto più terribile dell’uno e dell’altro, pur nelle ansie e nelle irrazionalità totali, se non avessi affrontato quel periodo, io oggi non sarei arrivata qui. Mi diceva, nei tuoi soliti noiosi, melodrammatici ed esagerati toni, che è necessaria la distruzione per creare la pace; mentre io, idealista e donna, sono un’eraclitea convinta: la dinamica oppositiva rende possibile l’affiorare del senso. Quanto ti odiavo, Alessandro, quando distruggevi tutto il nostro rapporto, quando con la tua mania di perfezione volevi che le cose stessero sempre a loro posto dalla tazzina da caffè riposta dentro al mobile alla mia schiena dritta. Io pensavo chetui volevi distruggere completamente me stessa, la mia indole, il mio carattere, per plasmarmi e farmi divenire ciò che volevi. Oggi ho capito che lo facevi per il mio bene, ma fino a quando si è disposti a cambiare, modificando se stessi per un’altra persona? Non c’era possibilità di risoluzione in quel periodo tu ancorato nelle tue rigide posizioni e io nei miei piagnistei. La prima volta che parlammo seranamente fu anni dopo, una sera dopo l’ennesimo litigio, d’estate a luglio, quando ero in procinto di scappare da te, etui mi invitasti a casa tua. Fu allora che smisi di piangere,fu solo allora. Io e te eravamo, quanto è bello e infantile dirlo, la coppia più bella del mondo, lo siamo sempre stati. Le persone non lo capiscono, né lo capiranno, mi hanno più volte invitato a desistere, ma io continuavo perché ? Perché l’amore è duplice tensione verso se stessi e l’altro. Non c’è amore senza lacrime, folli inseguimenti, non c’è amore che sia stasi, l’amore è movimento. E l’amore a vent’anni è lo sforzo più grande che esista perché a un tempo devi dare equilibrio a te stesso e all’altro. Ma poi io uno come te non lo avrei mai trovato, per quanto possa essere scontato. Alessandro mi hai fatto sentire per la prima volta piccola, mi hai stretto per la prima volta a te donandomi protezione, mi hai insegnato l’amore per la parola. Lo ricordo, come fosse ieri, tra le mani un libro, il tuo sguardo sognante ei tuoi occhi scuri come la terra, mentre leggvi i tuoi libri. Io non ho mai visto altro più amante e coraggioso di te nella lotta che svolgevi contro te stesso per affermare l’amore per lo scrivere. Eri di una delicatezza estrema, di una dolcezza straordinaria, immensamente travolgente ed io ero con te, sempre. Amare significa lasciarsi travolgere dai sogni dell’altro e farli divenire propri, tu invece pensavi che a me non importasse o importasse poco, ma io un certo distacco dovevo mantenerlo. Tu eri così. Te ne andavi spesso, te ne sei sempre andato sin dal primo mese di relazione, ma tornavi sempre. Dopo due ore, dopo un giorno, dopo tre giorni. Eri fatto così. Avevi bisogno sempre di ricordare e comprendere te stesso, tu non concedevi a te stesso di perderti. Testone, amore mio, io questa cosa non l’ho mai capita, né la capirò mai. Ma non è detto tuttavia che debba completamente capire ogni cosa di te. Certe volte bisogna accettare le cose e basta, ma ora dove sei? E’ passato troppo tempo, io non ce la faccio, la mia vita prosegue, puoi essere soddisfatto, tra le solite lezioni e la preparazione per il concorso, ma io non posso più chiederti nulla, non posso rivolgermi a te per un aiuto, né fare una passeggiata liberatoria, né carezzarti i capellini sotto le coperte di inverno, o mangiarci le nastrine, te lo ricordi? Non l’abbiamo mai fatto. Non deve finire così perché io devo girare il mondo con te, perché dobbiamo ancora litigare e inseguirci per tutta la città, perché io voglio che tu mi dica ancora che sono la più bella del mondo, e perché io da quando non ci sei non provo più interesse per nulla, e perché io ti amo ancora. Dimmi dove sei.
Giulia
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venerdì 28 agosto 2015
Capitolo X
X
Le mie prime poesie le
scrivevo in un diarietto verde come questo. Erano scritte a mano, in una grafia
incomprensibile, con cento e passa errori e chissà quante cancellature… proprio
come in questo.
Avevi mai pensato che –cancellare–
una parola significa porla di sotto a un cancello?! Bisognerebbe raccoglierle,
prima o poi, tutte le parole cancellate…
“Le mie poesie le scrivevo
in un diarietto verde”, ebbene, dunque… non sono qui per scrivere poesie.
Un mio amico poeta mi disse,
non molto tempo fa, che le lettere d’amore sono molto più belle di qualsivoglia
scritto in versi, metrica e sillabe. Che una mano macchiata d’inchiostro è più
romantica e sincera della luna e del sole e del mare. Di quante infinite e
addobbate parole si possano avere incastrate ad arte in un metro. –L’arte del
falegname è più preziosa di quella dell’orafo– ma il legno è molto, e la
corteccia è dura…
Io ti amo, Giulia. Non ho
paura di scriverlo, non ho paura di inciderlo nel canovaccio che sto modellando
stasera per te. Ma ho paura di dirlo, ricordi tu, forse, i poeti di Lesbo?
<<Quando due amanti si giurano amore, gli dèi li deridono>>. Mi
sono sempre chiesto cosa volesse dire, me lo chiedo ancora oggi.
<<Gli dèi ci
invidiano, compagno. Invidiano il nostro destino, ci invidiano la morte. Per
noi ogni attimo è unico, irripetibile, ha il sapore del frutto che non tornerà,
che noi più coglieremo. Gli dèi ci invidiano, compagno. Ci invidiano perché
sono infelici>>.
Gli dèi ci invidiano,
Giulia, hai un nome ancestrale che sale da un fondo di bile e paure. Così
simile a “Juno”, ne condividi forse il destino, il destino greve e pesante di
tutte le donne tradite.
Gli dèi ci invidiano,
Giulia. Ci invidiano il senno, la follia, la gioia, il dolore. Invidiano il
rosso oscillare frenetico da un moto dell’animo all’altro. Invidiano il nostro
furore, Medea. Tu donna ed io uomo, che ti ho tolta ad un vecchio legame in
promessa di un mondo migliore. No.
Tu Giàsone, io Medea.
Fuggendo la terra natìa, e gli affetti, dimentico del sangue, di padre e di
madre. Dimentico di tutto, per te.
È questo il mio atto
d’amore, non circoscritto in parole fumose, non disegnato da mani incoscienti.
Il mio corpo è il mio atto d’amore, e la mia testa, e le mie braccia –sempre
protese alle tue– , e le mie gambe –sempre correndo alle tue–.
L’amore fa male, Giulia…
giuliva, Giunone, lupita, Daniela, Andrea e tutti i nomi assurdi che ti ho
dato.
L’amore è verde, ancora, per
sempre. Ma verde come è verde la bile, verde come i nostri nasi sporchi di muco
e di lacrime, verde come la rabbia e il terrore. Eppure questo è amore, e pure
questo è amore.
Ieri mi hai scritto una
lettera, l’altro ieri, mi hai scritto una lettera, e cominciava proprio così
<<Ti scrivo una lettera, che vorrei leggerti a voce, perché è quello che
poi ci ha unito>>.
È quello che sto facendo io
adesso, e tu starai piangendo, e io vorrei che non piangessi, mai. Non per me,
non per altri. Non ti lascio, lo sai. Io non ti lascio, e se ti lascio ritorno
da te, sempre, fino alla morte, fino al dolore che brucia le carni, fino alle
situazioni che sembrano non risolversi più, e poi si risolvono sempre.
Tu per me sei il sole, senza
di cui ogni cosa poi perde colore. Giulia, tu sei il primo raggio di sole di un alba che non era mai sorta prima.
Io per te cosa sono? Mio
legame indissolubile col tempo, con l’uomo, con la vita e con il tutto. Io per
te cosa sono? L’uomo o la bestia? La voce o il silenzio? Sono per te la luce di
un mondo sereno, o ancora l’accecamento divino dell’amore? Mi manca Genova,
Giulia, mi manca Amalfi, mi mancano Creta e Parigi, mi mancano Giulia e
Alessandro felici, mi mancano Giulia e Alessandro lontani dal mondo di sempre.
Giulia e Alessandro grassoni, Giulia e Alessandro spensierati, appiccicati,
assetati di gioia e di vita, abbronzati dal sole d’estate, affreddati per dita
gelate, rimpinzati di pizze e gelati, affogati di crema e di panna!
Je t’aime mon amour, mon ami,
ma soeur, ma mere, mon pere, ma fille, ma doux, mon tout, ma vie. Je t’aime
toujours, parceque tu es ma femme. Parceque tu es mon coeur.
Ti vorrei qui.
Seconda settimana di terapia, Villa Angela, 21 dicembre 2014.
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venerdì 24 luglio 2015
Capitolo IX
IX
L’autobus
delle dieci arrivò con un grande rombare, spezzando a metà il discorso di
Alessandro che, assorto nei ricordi, fu colto di sopresa insieme ad Andrea. Ne
uscì una donna bellissima, di età indefinibile, tra i venti ed i trenta.
Incappucciata, con un cappotto dal bavero alzato che la copriva fino al collo,
lasciava intravedere solo il volto e i grandi occhi verdi. La donna sorrise e
il ragazzo, trattenendo un singulto, le andò incontro in silenzio. Insieme,
Giulia e Alessandro attraversarono il marciapiede, mano nella mano, e...
E
poi vissero. Vissero e basta, gentile lettore, se felici, se per sempre, e cosa
furono gli avvenimenti di cui si parlava non è dato conoscere, che la vita,
quella vera, non si può raccontare. Ti allieti però sapere che nell’alzarsi
Alessandro lasciò cadere ai piedi di Andrea un libriccino verde: rilegato in cuoio, sgualcito,
ma di fattura pregiata. Sulla copertina vi era scritto L’amore immaturo.
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venerdì 17 luglio 2015
Capitolo VIII
VIII
Era la sera del 20 settembre 2014, la luna era un piccolo spicchio d’arancia ed il cielo, cotonato di soffici nuvole, si accendeva in un coro di stelle. Non ero con Giulia, non la vedevo anzi da due giorni (cosa strana per noi, che dal giorno della laurea abbiamo praticamente convissuto). Camminavo per strada da solo pensando alle cose più strane. Di fronte a me il panorama, il mare e gli scogli, il vulcano dormiente, le case, le luci, le navi…
Avendo da poco finito lezione -davo lezioni di greco ogni sabato-, mi avviavo come mio solito a casa, mi sarei fatto una doccia, avrei preso l’auto, e sarei andato da lei.
Una serie di azioni che compivo ogni volta da mesi e alle quali nemmeno mi trovavo più a pensare (né quella volta faceva eccezione).
Camminavo mezzo assorto con lo sguardo tra le nuvole quando una goccia d'acqua mi cadde sulla fronte dal nulla. Pioveva. O meglio piovigginava, come tipico del mese di settembre.
Ricordo che per scampare a quello che si apprestava ad essere il primo temporale dell'autunno incipiente, cominciai a correre verso l'interno della costa per ripararmi sotto uno dei balconi che sporgevano lungo la via principale. Assieme a me correvano tutti, coppie di amanti sedute ad un bar, uomini in tuta, bambini, ciclisti. Fummo tutti colti dall'improvviso temporale.
La pioggia cadeva in obliquo (alcune percezioni sensoriali restano intatte), era sottile ma fitta, sempre più fitta, cullata dall'ultima brezza marina. Oscillava insieme alle onde, ti carezzava la faccia come un lenzuolo, costringendoti a chiudere gli occhi mentre avanzavi.
Adesso può sembrare stupido, lo so, e forse anche banale, ma è stato allora che ho compreso. Io ero felice. Io correvo ed ero felice. Felice davvero. Avevo un lavoro, un'individualità acquisita, avevo Giulia. Giulia...
Certo ci sarebbe aspettato che io raccontassi di uno dei momenti passati con lei, di una notte d'amore, di una folle avventura on the road. Sarebbe stato senza dubbio più romantico ma non veritiero. Io capii che volevo Giulia nella mia vita quel giorno, in quell'istante. Lontano dal mondo, lontano da tutti. Pensai a quello che avevamo creato, al Il l'equilibrio che ognuno aveva saputo regalare all'altro. Pensai al nostro futuro, al vivere insieme, addirittura pensai ad un figlio. Ero convinto che qualsiasi cosa sarebbe accaduta da quel momento in poi, non avrei mai più cambiato idea sulla vita. E forse così fu davvero, nonostante gli eventi che sarebbero capitati di lì a poco.
Qualche settimana dopo Giulia…
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giovedì 16 luglio 2015
Capitolo VII
VII
<<E,
per sempre, lo è stato?>>
<<Oh…
a dire il vero è qui che comincia…>>
<<ll
19 febbraio 2014 ci siamo laureati
insieme, lo stesso giorno. Io in letteratura italiana, lei in filosofia antica.
Subito dopo siamo partiti per un viaggio a Parigi, poi ci siamo iscritti alla
specialistica, la stessa.
Giulia
era diventata la mia quotidianità, il mio punto fermo nell’eterno caos della
vita. A buon ragione diceva Aristotele che la felicità è tale solo se
condivisa, Giulia mi aveva strappato dalla prigione della mia solitudine e solo
col tempo capii che nessuno, davvero nessuno riesce a salvarsi da solo. Dio, la
religione, la propria famiglia, le ancore di salvezza che traggono sempre
l’uomo fuori dal baratro… nessuna di queste cose valse per me. Fu Giulia ad
aiutarmi.
Cominciai
a disintossicarmi dai farmaci, a ridurre le sedute dallo psichiatra, stavo
bene, bene sul serio, con me stesso e col mondo. Le cose più brutte della mia
vita, quelle che prima mi portavano ansie e sofferenze cominciavano ora a
scivolarmi addosso, a non lasciare che un graffio su un corpo ormai risanato
nelle sue cicatrici. L’amore è un miracolo.
<<L’amore
è un miracolo>> ripetè Andrea sottovoce con un leggero baluginio negli
occhi. Stava forse piangendo? Alessandro non ebbe il coraggio di chiederglielo.
Si limitò ad asserire quanto, lui prima, e poi il vecchio, avevano affermato
poc’anzi. L’amore, a quel tempo, era
davvero un miracolo.
I due rimasero in silenzio per un po’, fino a
quando il vecchio Andrea riprese di nuovo la parola, palesando un sentimento
che lo stesso Alessandro aveva più volte immaginato di suscitare nel suo
ascoltatore: raccontava troppo veloce.
<<è
che per me certe cose sono accadute davvero in un attimo>> rispose
sinceramente il ragazzo che, se interrogato in quell’istante, non avrebbe
nemmeno saputo ripetere quando la sua storia d’amore ebbe inizio.
<<Potresti
parlarmi del giorno fatidico, no?>>
<<Il
giorno fatidico?>>
<<Suvvia
ragazzo, il giorno in cui hai detto a te stesso “è lei!”>>
Alessandro
ritorse lo sguardo e poi sorrise, reclinò il capo all’indietro e chiuse gli
occhi, ricordando.
<<Era la sera del 20 settembre 2014, la luna era
un piccolo spicchio d’arancia ed il cielo, cotonato di soffici nuvole, si
accendeva in un coro di stelle...>>
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mercoledì 15 luglio 2015
Capitolo VI
VI
La
incontrai alle venti e trenta al bar Algi, lo stesso della prima volta. Ci sono
luoghi e ricorrenze che in una storia tornano e ritornano milioni di volte. Le
diedi appuntamento con una scusa: aiutarla a tradurre i classici di greco per
l’esame di novembre.
Ci
salutammo da lontano, con paura. Agitando la mano nell’aria, come saluta chi
va, non chi sa di tornare. Sedemmo a tavolino e nonostante l’orario ordinammo
un caffè. In silenzio io presi uno dei libri e lo aprii sulle gambe, La storia di Cherea e Calliroe, quello
in cui avevo inserito il foglio che le avrei dato. Quando mi sarebbe tornato il
coraggio.
<<Allora…
io direi di cominciare dal primo capitolo, con un po’ di volontà potremmo
arrivare a metà libro>>
<<Va
bene>> rispose Giulia sommessa, <<ma prima ordiniamo un
caffè>>
Prendemmo
un amaro e una cioccolata calda. Li sorseggiammo in silenzio, con gli occhi
bassi. Io sopra il libro, sfogliandone le pagine; lei sulla tazza, sfiorandosi
le mani.
Un
capitolo del libro cominciava così
la pelle bianca risplendette,
lanciando come uno scintillio, tenera era la sua carne, tanto da temere che
anche solo a toccarla le si potesse recare dolore.
Deglutii in un tremito, trattenni un
singhiozzo e una lacrima.
<<Cominciamo,
su, chè si fa tardi>>
Giulia
posò la tazzina sul tavolo e si spostò con la sedia accanto a me, avendo noi
due un solo libro di testo. Sudavo freddo.
<<asfalès
significa sicuro, vero?>>
<<Sì>>
<<Come
faccio a ricordarlo?>>
<<Se
ci pensi, in italiano, asfalto significa più o meno la stessa cosa. Serve per
rendere le strade sicure, no?>>
Spalancò
gli occhi sorpresa, come quando si scopre qualcosa che si era sempre avuta
sotto il naso.
<<Quindi
questo significa il contrario, insicuro!>> esclamò indicando con la punta
del dito una parola poco più sotto.
<<Sì,
sei diventata brava, hai visto?>> in un istante Giulia ebbe un sussulto,
si spinse in avanti col collo e le spalle, poi si frenò nello stesso momento.
Avrebbe voluto abbracciarmi, però non lo fece (e io feci finta di non averlo
notato). Continuammo con la traduzione.
Con l’avanzare del tempo il padrone
non riusciva a darsi pace, era con tutto se stesso nel tempio d’Afrodite, dove
l’aveva incontrata la prima volta. Si ricordava di tutto, del suo volto, dei
capelli, di come s’era voltata, di come aveva guardato, della sua voce,
l’atteggiamento, le parole. Lo lacrime lo bruciavano. Si poteva assistere alla
lotta tra ragione e sentimento.
Il
testo sembrava parlare di me. E di Giulia! La sua candida pelle, il mio dolore…
<<In
greco pathos vuol dire sia dolore… sia sentimento. Questo me lo hai insegnato
tu>>
Non ce la feci più. Strinsi
i pugni così forte che sentivo le unghie penetrarmi nella carne della mano.
<<Giulia io…>> Le parole mi si bloccarono in gola nel momento in
cui tentavano di uscire tutte insieme. Le mie labbra si aprivano al gonfiare
prepotente dei polmoni nella voglia di urlarle tutto il mondo in un fiato, ma
poi tutto mi si accartocciava nella bocca, permettendo il fuoriuscire solo a
stralci di parole. <<Giulia io…>>
Presi subito la lettera, la
aprii, senza premetterle nulla cominciai a leggere, secondo i dettami di un
cuore tiranno:
Io ti amo. Ti amo perché hai le mani
piccole, i denti a coniglio, il collo sottile.
Ti amo perché hai un neo sul naso, ed uno
sull’orecchio: il primo nascosto nelle foto, il secondo nascosto dai capelli.
Ti amo perché sei fragile, ti amo perché per
strada di notte hai paura di camminare da sola. Ti amo perché indossi le scarpe
da strega, e poi ci salti nelle pozzanghere.
Ti amo perché sei bella, ti amo perché non
sarai per sempre mia, ti amo perché mangi le carote come un criceto.
Ti amo perché non sai leggere in metrica,
perché scambi paralumi per cappelli, perché hai una borsa che pesa più del mio
zaino.
Ti amo perché mi chiami Sandrino, Leone,
testone, pelato… ti amo perché per me queste sono diventate parole d’amore.
Ti amo perché quando devo incontrarti mi
manca il respiro, perché quando mi abbracci mi batte ancora il cuore. Ti amo
perché anche nei cessi dell’università tu rimani la ragazza più bella che io
abbia mai visto.
Ti amo perché non mi importa delle notti
insonni, o della stanchezza, o della paura di poter diventare pazzo. Ti amo
perché senza di te la vita non ha senso, e non lo aveva prima. Prima che ti
conoscessi.
Ti amo perché quella notte sulla spiaggia,
quando ti dissi che mi faceva male il cuore, capii che d’amore ci si muore per
davvero, e non solo nei film.
Ti amo perché potrebbe scendere Dio in
persona a dirmi di scacciarti via, e io non lo farei. Ti amo perché l’hanno
fatto il mio psichiatra, mio padre, i miei amici. Ti amo perché mi vergogno
profondamente della mia famiglia e del luogo in cui vivo ma non te l’ho mai
detto. Ti amo perché se non ci sei tu non hanno senso le cose, non sono belle
le poesie, non ha motivo voler essere un poeta. Eppure darei via ora il greco,
il latino, e la poesia, solo per essere un po’ più forte, solo per poterti
lasciare ogni giorno la convinzione e la certezza che io sono il tuo pilastro,
che se tu cadi io sono lì, pronto a sorreggerti. Ti amo perché se essere forte
significa prendere dei medicinali allora va bene, saremo degli innamorati
pazzi! Nel verso senso del termine.
Ti amo perché queste cose dovrei urlartele
in faccia e stringerti il petto su un muro, ti amo perché nonostante tutto tu
mi ascolti lo stesso.
Ti amo perché non ho mai pensato di
tradirti, nemmeno per dimenticarti, e ogni qualvolta ci provavo mi sentivo in
colpa, poi non capendone il motivo mi mettevo a piangere. Il motivo è che ti
amo, ancora, sempre.
Che mi sono innamorato di te come nel sonno,
senza accorgermene, tutto d’un tratto. Ti amo perché non c’è amore in quello
che studio, nelle cose che faccio. Ti amo perché quando mi chiedo dove sia
finito tutto quell’ardore con cui mi cimentavo prima in quelle azioni, mi trovo
a rispondermi che ora è tuo, e che non potrà più esserlo di altre persone così
come non lo è di altre cose.
Ti amo perché spesso mi fai male. Ti amo
perché quel giorno sono impazzito di gelosia e mi sono chiesto “come ha potuto
farlo?! Come ci è riuscita?! Come si fa?”. Ti amo perché al contempo ci
impazzisco e non mi importa niente. Ti amo perché stasera ti chiederei di
andare a dormire fuori, portandoti i tuoi libri, facendo greco tutta la notte
(ho tutta la cartella riempita di libri). Ti amo perché te lo sto chiedendo,
perché voglio guardarti studiare in silenzio, voglio sentirti balbettare un
esametro, un distico, un tetrametro. Ti amo perché voglio guardarti dormire e
accarezzarti mentre lo fai, sfiorarti le labbra, il collo ed i capelli. Ti amo
perché non vorrei fare altro, perché ti bacerei teneramente al risveglio
dicendoti “siamo ancora qui, siamo sempre noi. Morbosi, impauriti, pazzi,
scombinati… non possiamo essere diversamente da così ma io ti amo. Ti amo. Ti
amo. Ti amo.” E poi aggiungerei “Amore mio, ho paura, però sai… io un po’ nei
film in fondo in fondo ci credo, e non può piovere per sempre sulle nostre
teste, non è giusto che sia così, non è giusto il dover essere messi alla prova
ogni giorno, perché anche se non ce la faccio più, io voglio provarci fino a
quando avrò fiato nei polmoni e forza per tenermi in piedi. Non c’è un’altra
lotta che valga tanto al mondo. Non c’è nient’altro per cui valga la pena
lottare”.
Giulia
proruppe in un pianto liberatorio. Io la baciai sulla fronte, abbracciandola.
Tornammo
insieme. Quella volta giurammo che sarebbe stato per sempre.
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martedì 14 luglio 2015
Capitolo V
V
Quattro
mesi dopo io e Giulia eravamo seduti insieme su una panchina all’aperto, nei
pressi dell’università. Avevo cominciato i corsi da circa due settimane e l’avevo
già incontrata più volte. Mi stringeva forte le mani, mi guardava negli occhi e
piangeva. Io non riuscivo a dirle niente. Lei non riusciva a dirmi tutto. Era
la panchina sulla quale, quasi un anno prima, le avevo detto che ero innamorato
di lei. Su quella stessa panchina, ora, lei lo ricordava a me.
<<Alessandro,
ti prego, torna con me. Io ne ho bisogno. Ne usciremo insieme, io e te. Perché
ci amiamo. Perché l’amore è forte. Ma soprattutto perché lo vogliamo.
Alessandro, ti prego, torna con me.>>
L’amore
non ha dignità, è fatto di lacrime e di colpe. Di nasi sporchi e occhi rossi,
di urla e di bava. Tutto attorno la gente ci guardava, come a dire
<<Speriamo facciano pace>>. Io la pace la cercavo dentro me, in
quel vuoto che Giulia tentava di colmare a cumuli di rabbia, a pugni, a
schiaffi.
<<Alessandro!
Riprenditi! Noi dobbiamo stare insieme! Io e te! Lo capisci?!>>
Urlava
col terrore di chi ha perso qualcosa di importante, singhiozzava, affannava,
rantolava. Le parole le risalivano attraverso la gola come conati di vomito, gonfiandole
gli occhi e le gote, schiacciandole il petto.
Le
dissi che non potevo permettermelo, che la mia attuale situazione psicologica
non mi consentiva di avere un rapporto normale. Mi sentivo sporco, meschino.
Addirittura convinto che quel che le dicevo era vero, che probabilmente io non
ero fatto per un rapporto di coppia, che forse avrei dovuto vivere da solo, e
da solo combattere i miei demoni.
Non
mi rispose più, strinse i pugni, calò il capo. Rimase una manciata di secondi
così, immobile, scarmigliata, desolata. Era passata dalla rabbia alla
rassegnazione, ma un pizzico d’ira l’era rimasto nel volto, ora rosso, ora
bianco. Non riusciva a liberarsene e così me lo scoccò in bocca prima di
scappare: un bacio arroventato che volò con la veemenza di un dardo, tale era
il dolore che recava.
Non
disse niente, non un addio, non un fiato. Era finita, questa volta davvero.
Passai
i giorni successivi a quell’incontro a casa. Non uscivo mai, nemmeno per
distrarmi. L’unica eccezione a questa abitudine fu il giorno del mio
compleanno, il 21 ottobre, in cui i miei mi convinsero che era giusto
festeggiare almeno quello, per trovare la forza di ricominciare, con l’anno
nuovo. Forse avevano ragione.
La
settimana successiva, a partire dal giorno 22 ottobre 2013, la passai a
tormentarmi sul perché Giulia non mi avesse fatto gli auguri, nemmeno per
messaggio, nemmeno tramite internet. Ci era riuscita, mi aveva cancellato per
davvero. Finalmente. Aveva smesso di soffrire per me, sporco, disonesto e
tormentato. Ero felice per lei, dovevo essere felice per lei. Però perché io
non ci riuscivo? Perché la pensavo ancora? Perché IO non ero felice?!
Tante
domande che trovarono infine una sola risposta, una notte, in un sogno; e poi
in due notti, in tre, in quattro, in sogni sempre ricorrenti: Io l’amavo. Senza
troppi giri di parole, l’amavo. L’amavo e basta.
Tutto
a un tratto non ce la feci più, e un bel giorno, un pomeriggio come tanti,
esplosi, letteralmente esplosi, scoppiai in un pianto a dirotto, non riuscivo
più a smettere e non bastarono tutti gli antidepressivi del mondo a porvi fine.
Lorazepam, anafranil e mirtazapina non potevano più (se mai poterono davvero) placare
dentro di me la fiamma dell’amore. Mi decisi, l’avrei incontrata quella sera
stessa e le avrei detto tutto. Ancora una volta alla maniera dei vili e dei
deboli. Scrivendole una lettera (la quale ancora conservo con me).
Quella
sera capii cosa significasse essere poeta, la scissione eterna tra il saper
vivere e il poter scrivere. Quella sera capii che era un fardello, il peggiore
dei doni di Dio.
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domenica 12 luglio 2015
Capitolo IV
IV
Intanto
l’amore correva, più in fretta di noi, più in fretta di me, che nella corsa
avevo perso senno e ragione. Non riuscivo a dormire, a studiare, non mangiavo
nemmeno. Capii quanto era falso quel luogo comune che fa di tutti gli amori una
stupida allegria condivisa. L’amore è un uragano. L’amore ti devasta. Ti scuote
dalle fondamenta e sradica ogni minima certezza che tu possa avere. Io lo
capii, ma non riuscivo a risalire a galla, non sapevo riprendermi. Fu così che
mi ammalai, che persi me stesso e finii in depressione. Pochi mesi dopo persi
anche lei, fui io a scacciarla, ossessionato
da lei, malato di lei. Nel terrore che quell’unico rimasuglio di ragione
rimastomi mi regalava: il rischio di affondare insieme. Fu questo l’unico
motivo per cui non le tesi la mano, per cui non le chiesi di salvarmi. La
paura, forse una forza più potente dell’amore stesso.
Fui
due mesi in terapia, assunsi ansiolitici, antidepressivi e sonniferi. Un velo
di Maya i cui brandelli porto ancora adesso sul capo. Mi distruggevo nel
desiderio di salvarmi. Era paradossale. Era terribile. Non passò una notte in
cui non la sognavo, il suo sorriso innocente, le sue lacrime di dispiacere. Era
un fardello orribile quello che mi caricavo indosso da solo: La consapevolezza
di fare del male alla donna che amavo, l’incapacità di smettere. Avrei voluto
morire.
La
terapia cominciò col fare effetto molto tempo dopo dal suo inizio: la ragione
ritornava, con essa la voglia di studiare, gli esami, e infine il sonno
perduto. L’unica cosa che stentava a cambiare era Giulia, la sua immagine, la
sua figura che ogni notte calava dal cielo nei sogni. Io ero ancora
profondamente e perdutamente innamorato di lei. Ma che fare? Come agire? Il
dubbio mi tormentava più della malattia. Era forse una mia colpa quella di non
riuscire a coniugare amore e vita? Come diamine facevano gli altri a costruire
rapporti su rapporti e continuare la loro, di vita, inseguire i propri sogni,
profondere l’impegno necessario al tutto? In cosa erano così dannatamente
superficiali, nell’amore o nella vita? Forse in entrambi, fatto sta che non
amavano, o che non amavano come amavo io. Di questo ne ero certo.
Ora
potrei aggiungere anche che Giulia era la mia prima ragazza, la prima
fidanzata, il primo vero amore. Perché non sono amori le cotte liceali, gli
amori estivi e quelli occasionali. Non sono veri amori quelli facili, quelli
del “proviamoci”, quelli del compromesso, come niente è vero che non costi
sudore, sangue e fatica. Possa essere anche il più stupido rapporto di amicizia.
Se non richiede nulla, mai… non ne vale la pena.
Ebbene
potrei aggiungere anche che Giulia era la mia prima ragazza e caricare il
nostro amore di quella sciocca ed ostinata convinzione per cui ogni primo amore
è necessariamente difficile e sofferto e maledetto… condannato alla fine.
Ogni-primo-amore.
Certo. Come se ce ne fossero secondi, terzi, quarti e penultimi di amori.
L’amore è unico, questa è un’altra cosa che ho imparato col tempo. Possa
arrivare subito o tra cent’anni è sempre il primo. Non ci sono alternative.
Nessuno mai ne ha cercate.
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venerdì 10 luglio 2015
Capitolo III
III
Il mese
dopo eravamo già fidanzati, e lei mi aveva regalato, di già, all'incirca dieci
peluches e una dozzina di libri da leggere, i suoi preferiti. Io, per non
restare indietro col passo, avevo ricambiato con altrettanti pupazzi e una quantità mastodontica
di libri, i miei preferiti, e quelli che ancora dovevo leggere ma sapevo per
certo che fossero belli. Eravamo in quella fase in cui l'amore è insicuro di
sé, e immaturo, e speranzoso, cerca la fuga e il riparo allo stesso tempo. Io a
volte riuscivo a vedere nei suoi occhi una certa tristezza profonda,
abbandonata nei recessi del passato, ma che spesso lampeggiava smeraldina nel
guizzo dei suoi occhi verdi. Quando le dissi per la prima volta che mi ero
innamorato scoppiò a piangere. Non volle più parlarmi per tutta la giornata. Mi
resi conto di aver sfondato un muro, credo. Le avevo ricordato l’abisso. Però
pochi giorni dopo fu lei a dirmi che mi amava, e lo fece sorridendo. Giulia era
un mistero eccezionale. Tanto bello quanto imperscrutabile.
Al
secondo mese io le scrissi una poesia, dopo la nostra prima notte insieme.
Al terzo mese le regalai un anello di fidanzamento: un piccolo brillante su un sottile cerchio d'argento. Ben oltre il massimo che le mie finanze potessero permettermi, ma l'amore non ha limiti, è risaputo, e non sono certo io a doverlo spiegare.
Al terzo mese le regalai un anello di fidanzamento: un piccolo brillante su un sottile cerchio d'argento. Ben oltre il massimo che le mie finanze potessero permettermi, ma l'amore non ha limiti, è risaputo, e non sono certo io a doverlo spiegare.
Lei
pianse, poi rise, si commosse, e infine si fiondò contro di me in un abbraccio.
Disse che sarebbe voluta restare accanto a me per tutta la vita. Dio quanto la
amavo. Dio quanto mi manca.
All'anello
le aggiunsi altre tre poesie, una per ogni mese che avevamo passato insieme. Ne
ricordo a memoria solo una, perché poi la pubblicai su un giornaletto di un
concorso:
Sulle tue guance dorme il sole
quando entra dalla finestra
e ci scalda le lenzuola.
Il tuo capo è un cerchio dorato
e i tuoi capelli diventano
grano odoroso
e un dardo è il tuo naso.
Sulle tue guance dorme il giorno, amore
che si alza con te
quando schiudi le palpebre
e il giallo dei tuoi occhi
si mischia col giallo del sole
in un’estasi cromatica.
Quella stessa sera cenammo fuori casa, mangiammo fino a scoppiare: pizze, panini, e gelati artigianali. Amore a volte può significare avere un'indigestione insieme. Amore quella volta significò passare tutta la notte mano nella mano su un letto a castello di un piccolo albergo, senza neppure avere la forza di sfiorarci con un dito.
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mercoledì 8 luglio 2015
Capitolo II
II
La vidi
per la prima volta il nove febbraio del 2013, era seduta ad un bar e strappava
pagine dal libro di filosofia per farne dei filtri. L’appuntamento glielo avevo
dato io, tramite amici; alle 18.30 al bar Algi, la paradossalità di un nome che
era formato dalla prima sillaba dei nostri due messi insieme. Giulia e
Alessandro… Giulia e Alessandro (quanto mi manca sentirli ripetere).
Quel
giorno aveva indosso un vestito lungo, nero, che le copriva le gambe fin sui
ginocchi e un paio di ballerine dello
stesso colore abbinate ad un simpatico cappello francese.
<<Alessandro!>>
mi disse impulsiva quando le apparvi di fronte. Non <<Tu devi
essere…>>, <<Ciao, sono Giulia, tu sei…?>>. No, Alessandro.
Un nome secco, diretto, detto con l’irruenza della sicurezza, con la
sfrontatezza della gioia; così come irruenta e gioiosa era tutta la sua
persona.
<<Ciao…>
le risposi io, <<tu sei… Giulia>> soggiunsi con un po’ di finta
incertezza, non sapendo come reagire al suo modo di fare. Sorrise.
<<Siediti, dai>>.
Allora mi
sedetti. In un modo un po’ macchinoso.
<<Hai
un accendino?>> Subito ripartì con le domande.
<<Sì>>
<<Allora.
Sei anche tu a lettere classiche?>>
<<Sì>>
le risposi allo stesso modo, mentre l’aiutavo ad accendere.
<<Come
mai hai scelto lettere?>>
<<Lo
sai che è una domanda terribile, vero?>>
<<Lo
so>>
<<Per
fortuna!>>
<<Però
rispondi lo stesso>> disse in concomitanza alla mia frase.
<<Va
bene… allora… è… come dire… ho scelto lettere classiche perché sono bravo col
greco>>
<<Modesto!>>
disse subito lei.
<<…
e perché ho un sognoefammifinirelefrasi>> le risposi tutto difilato.
<<Un
sogno?>>
<<Un
sogno.>>
<<Vuoi
insegnare?>>
<<No>>
dissi con una punta di mistero, riponendo l’accendino nella tasca destra del
giubbotto.
<<Vuoi
diventare professore universitario?>>
<<No>>
<<Vuoi…>>
<<Voglio
fare il poeta>>
<<…>>
Ci furono
secondi di silenzio e poi
<<Oddio,
eccone un altro>> sbuffò improvvisamente portando la mano alla fronte
<<vuoi forse vivere sotto i ponti?>>
<<No>>
risposi secco.
<<Allora
cambia aspirazione>>
<<Io
ci riesco>>
<<Sei
pure testardo>>
<<Io
lo so.>>
<<Sai
cosa?>>
<<Che
ci riesco>>
Quando
capì che comportandosi in quella maniera non sarebbe servito a nulla, mutò
improvvisamente atteggiamento, con una naturalezza che solo le donne sanno
assumere. Mi guardò con aria di sfida e disse <<Allora sentiamo, signor
poeta, come fai a saperlo?>>
<<Oh,
è ovvio. È il mio destino>> le dissi gongolando.
<<Il
destino non esiste, Alessandro>>
<<Sì
che esiste>>
<<No>>
<<Il
destino esiste, Giulia.>> ripresi io con tono improvvisamente serio,
<<ne scrivono e ne sono convinti i più grandi scrittori esistiti. Ne
parla Omero, come sai, Esiodo, Virgilio… e poi Machiavelli, Dostoevskij,
Bukowski. Giusto per citarne alcuni.>>
<<Persone
che hanno raggiunto il successo>>
<<Esatto>>
<<E
che hanno trovato una giustificazione alla loro realizzazione>>
<<No>>
<<Sì>>
<<Sei
cinica>>
<<Realista.>>
<<Cinica.>>
<<Sognatore.>>
Eravamo due mondi diversi, destinati inevitabilmente a scontrarci. Io asociale e solitario per
natura e lei, una folle squinternata. Forse eravamo destinati a restare insieme per sempre.
<<Fatum est
ordo seriesque causarum>>
<<Fata volentem ducunt, nolentem trahunt>>
<<Seneca?>>
<<No,
Alessandro Neri>>
<<Cretino.>>
Sorrise.
Fu un attimo; il lieve inarcarsi di una ruga sul labbro, ma lo fece. Per la
prima volta. Io non l’ho più scordato.
<<Hai
i denti a coniglio!>> le feci sorpreso.
<<Lo
so, e sono bellissimi>> rispose lei con la finta alterigia del vezzo.
<<Bellissimi
poi… potrei scriverci una poesia, sai? Sono molto bravo, posso scrivere di
tutto>>
<<Di
tutto?>> disse facendo scivolare la lingua sui dentoni <<E allora
vediamo questo tutto, mio caro>>
Le chiesi
una penna ed un foglio. Strappò un altro pezzo del libro, e poi raccolse il
portapenne dalla borsa.
<<Prego>>
<<Allora…
mmh, dammi solo un paio di minuti che… Sì, ecco.
Denti
a coniglio
finestre
semiaperte
di
un balcone vermiglio.
Un
quinario con due settenari in alternanza di accenti pari e dispari! La conosci
la metrica, vero?>>
<<Tu
sei pazzo>> Disse con gli occhi spalancati scandendo ogni singola
sillaba.
Io non le
risposi. Aveva ragione dopotutto. Ero pazzo, già pazzo di lei.
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