martedì 14 luglio 2015

Capitolo V

V

Quattro mesi dopo io e Giulia eravamo seduti insieme su una panchina all’aperto, nei pressi dell’università. Avevo cominciato i corsi da circa due settimane e l’avevo già incontrata più volte. Mi stringeva forte le mani, mi guardava negli occhi e piangeva. Io non riuscivo a dirle niente. Lei non riusciva a dirmi tutto. Era la panchina sulla quale, quasi un anno prima, le avevo detto che ero innamorato di lei. Su quella stessa panchina, ora, lei lo ricordava a me.

<<Alessandro, ti prego, torna con me. Io ne ho bisogno. Ne usciremo insieme, io e te. Perché ci amiamo. Perché l’amore è forte. Ma soprattutto perché lo vogliamo. Alessandro, ti prego, torna con me.>>

L’amore non ha dignità, è fatto di lacrime e di colpe. Di nasi sporchi e occhi rossi, di urla e di bava. Tutto attorno la gente ci guardava, come a dire <<Speriamo facciano pace>>. Io la pace la cercavo dentro me, in quel vuoto che Giulia tentava di colmare a cumuli di rabbia, a pugni, a schiaffi.
<<Alessandro! Riprenditi! Noi dobbiamo stare insieme! Io e te! Lo capisci?!>>
Urlava col terrore di chi ha perso qualcosa di importante, singhiozzava, affannava, rantolava. Le parole le risalivano attraverso la gola come conati di vomito, gonfiandole gli occhi e le gote, schiacciandole il petto.
Le dissi che non potevo permettermelo, che la mia attuale situazione psicologica non mi consentiva di avere un rapporto normale. Mi sentivo sporco, meschino. Addirittura convinto che quel che le dicevo era vero, che probabilmente io non ero fatto per un rapporto di coppia, che forse avrei dovuto vivere da solo, e da solo combattere i miei demoni.
Non mi rispose più, strinse i pugni, calò il capo. Rimase una manciata di secondi così, immobile, scarmigliata, desolata. Era passata dalla rabbia alla rassegnazione, ma un pizzico d’ira l’era rimasto nel volto, ora rosso, ora bianco. Non riusciva a liberarsene e così me lo scoccò in bocca prima di scappare: un bacio arroventato che volò con la veemenza di un dardo, tale era il dolore che recava.
Non disse niente, non un addio, non un fiato. Era finita, questa volta davvero.


Passai i giorni successivi a quell’incontro a casa. Non uscivo mai, nemmeno per distrarmi. L’unica eccezione a questa abitudine fu il giorno del mio compleanno, il 21 ottobre, in cui i miei mi convinsero che era giusto festeggiare almeno quello, per trovare la forza di ricominciare, con l’anno nuovo. Forse avevano ragione.
La settimana successiva, a partire dal giorno 22 ottobre 2013, la passai a tormentarmi sul perché Giulia non mi avesse fatto gli auguri, nemmeno per messaggio, nemmeno tramite internet. Ci era riuscita, mi aveva cancellato per davvero. Finalmente. Aveva smesso di soffrire per me, sporco, disonesto e tormentato. Ero felice per lei, dovevo essere felice per lei. Però perché io non ci riuscivo? Perché la pensavo ancora? Perché IO non ero felice?!
Tante domande che trovarono infine una sola risposta, una notte, in un sogno; e poi in due notti, in tre, in quattro, in sogni sempre ricorrenti: Io l’amavo. Senza troppi giri di parole, l’amavo. L’amavo e basta.
Tutto a un tratto non ce la feci più, e un bel giorno, un pomeriggio come tanti, esplosi, letteralmente esplosi, scoppiai in un pianto a dirotto, non riuscivo più a smettere e non bastarono tutti gli antidepressivi del mondo a porvi fine. Lorazepam, anafranil e mirtazapina non potevano più (se mai poterono davvero) placare dentro di me la fiamma dell’amore. Mi decisi, l’avrei incontrata quella sera stessa e le avrei detto tutto. Ancora una volta alla maniera dei vili e dei deboli. Scrivendole una lettera (la quale ancora conservo con me).

Quella sera capii cosa significasse essere poeta, la scissione eterna tra il saper vivere e il poter scrivere. Quella sera capii che era un fardello, il peggiore dei doni di Dio. 

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