V
Quattro
mesi dopo io e Giulia eravamo seduti insieme su una panchina all’aperto, nei
pressi dell’università. Avevo cominciato i corsi da circa due settimane e l’avevo
già incontrata più volte. Mi stringeva forte le mani, mi guardava negli occhi e
piangeva. Io non riuscivo a dirle niente. Lei non riusciva a dirmi tutto. Era
la panchina sulla quale, quasi un anno prima, le avevo detto che ero innamorato
di lei. Su quella stessa panchina, ora, lei lo ricordava a me.
<<Alessandro,
ti prego, torna con me. Io ne ho bisogno. Ne usciremo insieme, io e te. Perché
ci amiamo. Perché l’amore è forte. Ma soprattutto perché lo vogliamo.
Alessandro, ti prego, torna con me.>>
L’amore
non ha dignità, è fatto di lacrime e di colpe. Di nasi sporchi e occhi rossi,
di urla e di bava. Tutto attorno la gente ci guardava, come a dire
<<Speriamo facciano pace>>. Io la pace la cercavo dentro me, in
quel vuoto che Giulia tentava di colmare a cumuli di rabbia, a pugni, a
schiaffi.
<<Alessandro!
Riprenditi! Noi dobbiamo stare insieme! Io e te! Lo capisci?!>>
Urlava
col terrore di chi ha perso qualcosa di importante, singhiozzava, affannava,
rantolava. Le parole le risalivano attraverso la gola come conati di vomito, gonfiandole
gli occhi e le gote, schiacciandole il petto.
Le
dissi che non potevo permettermelo, che la mia attuale situazione psicologica
non mi consentiva di avere un rapporto normale. Mi sentivo sporco, meschino.
Addirittura convinto che quel che le dicevo era vero, che probabilmente io non
ero fatto per un rapporto di coppia, che forse avrei dovuto vivere da solo, e
da solo combattere i miei demoni.
Non
mi rispose più, strinse i pugni, calò il capo. Rimase una manciata di secondi
così, immobile, scarmigliata, desolata. Era passata dalla rabbia alla
rassegnazione, ma un pizzico d’ira l’era rimasto nel volto, ora rosso, ora
bianco. Non riusciva a liberarsene e così me lo scoccò in bocca prima di
scappare: un bacio arroventato che volò con la veemenza di un dardo, tale era
il dolore che recava.
Non
disse niente, non un addio, non un fiato. Era finita, questa volta davvero.
Passai
i giorni successivi a quell’incontro a casa. Non uscivo mai, nemmeno per
distrarmi. L’unica eccezione a questa abitudine fu il giorno del mio
compleanno, il 21 ottobre, in cui i miei mi convinsero che era giusto
festeggiare almeno quello, per trovare la forza di ricominciare, con l’anno
nuovo. Forse avevano ragione.
La
settimana successiva, a partire dal giorno 22 ottobre 2013, la passai a
tormentarmi sul perché Giulia non mi avesse fatto gli auguri, nemmeno per
messaggio, nemmeno tramite internet. Ci era riuscita, mi aveva cancellato per
davvero. Finalmente. Aveva smesso di soffrire per me, sporco, disonesto e
tormentato. Ero felice per lei, dovevo essere felice per lei. Però perché io
non ci riuscivo? Perché la pensavo ancora? Perché IO non ero felice?!
Tante
domande che trovarono infine una sola risposta, una notte, in un sogno; e poi
in due notti, in tre, in quattro, in sogni sempre ricorrenti: Io l’amavo. Senza
troppi giri di parole, l’amavo. L’amavo e basta.
Tutto
a un tratto non ce la feci più, e un bel giorno, un pomeriggio come tanti,
esplosi, letteralmente esplosi, scoppiai in un pianto a dirotto, non riuscivo
più a smettere e non bastarono tutti gli antidepressivi del mondo a porvi fine.
Lorazepam, anafranil e mirtazapina non potevano più (se mai poterono davvero) placare
dentro di me la fiamma dell’amore. Mi decisi, l’avrei incontrata quella sera
stessa e le avrei detto tutto. Ancora una volta alla maniera dei vili e dei
deboli. Scrivendole una lettera (la quale ancora conservo con me).
Quella
sera capii cosa significasse essere poeta, la scissione eterna tra il saper
vivere e il poter scrivere. Quella sera capii che era un fardello, il peggiore
dei doni di Dio.
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