I
Il
viale era lastricato di foglie marroni; tutto intorno gli alberi, seminudi,
tendevano le esili braccia nel vento, ove l’Autunno con dita di carta li
spogliava degli ultimi veli. In cielo c’era la luna, adorna di pallido manto, e
su una panchina, all’ombra maculata di un faggio, Alessandro attendeva il bus
delle nove.
Benché
fosse ancora venerdì, in strada non v’era nessuno, e il rumore del vento che in
piccoli gorghi alzava al cielo mucchi di foglie accartocciate risuonava lungo
tutto il viale. I lampioni ai lati dei marciapiedi avevano preso da poco a
illuminare la strada e la luce che emanavano era ancora pallida e soffusa,
mentre al di là dei grandi cancelli, le finestre delle villette rosseggiavano
come piccoli fuochi nel buio della sera.
Alessandro
sedeva a gambe incrociate, con lo sguardo volto agli alberi. Aveva le braccia
conserte e il capo chinato in avanti. Indossava un lungo cappotto nero, di
stoffa, e sul naso portava un paio di occhiali da sole, regalo di una vecchia
conoscenza.
Se
ne stava lì in quella posizione ormai da parecchio tempo, e circa ogni dieci
minuti, in un gesto meccanico ripetuto chissà quante volte, fissava l’orologio
che portava sul polso sinistro; poi ritornava con lo sguardo nel vuoto, senza mai
cambiare posizione. <<Sono arrivato troppo presto>>, diceva ogni
volta tra sé, <<Forse dovrei alzarmi>>, <<Forse è meglio
tornare a casa>>.
<<Giuro questo è l’ultimo>> soggiunse infine in un lungo e profondo
respiro, <<Se non è nemmeno in questo, significa che non verrà>>.
Passarono
circa quaranta minuti. Il bus arrivò alle nove e venti, quando ormai le luci
dei lampioni avevano preso a illuminare l’intera strada, in una lunga scia
perlata che continuava a perdita d’occhio fino all’incrocio con la ventiduesima.
Gli alberi sembravano arancioni, rivivificati, pur se con poche decine di
foglie. E la luna, ora perduto il suo ruolo sulla scena, si copriva pudicamente
dietro una lunga nuvola grigia. Il vento aveva cessato di soffiare.
L’autoveicolo
sostò per una manciata di secondi alla fermata, aspettò che ne uscissero un’altrettanta
manciata di persone, un ragazzino, due donne, un uomo, e poi ripartì; enorme
scatolone giallo che rombava nel silenzio della notte.
Alessandro,
seduto, si guardò dapprima attorno, ancora senza cambiare posizione, con fare
circospetto, poi si alzò in piedi e sporgendosi sulle punte cercò di guardare fin
sul fondo del viale, prima da una parte, poi d’all’altra. Nessuno. Lo stesso scatolone
giallo non era ormai che un puntino indistinto nella notte. <<Sarà per le
dieci>>, si disse sconsolato. Poi sedé di nuovo.
Nel
riprendere posto notò con sorpresa che un’altra persona sedeva adesso accanto a
lui; benché stranamente non se ne fosse accorto: era un anziano signore in
impermeabile, con un elegante copricapo in pelle e una lunga sciarpa beige che
scendeva fin sulle gambe.
Gli
scambiò un sorriso di circostanza, come di quelli che si fanno quando non si ha
voglia di parlare; poi si aggiustò il cappotto, guardò l’orologio ed incrociò
braccia e gambe. Il vecchio tuttavia, in maniera volontaria o forse solo perché
distratto, non colse il desiderio del ragazzo, al quale, dopo aver ricambiato
il sorriso, mostrando una fila di trentadue denti bianchi e perfetti, rivolse
subito la parola.
<<L’autunno
quest’anno è giunto particolarmente freddo>>; <<La brina ha
completamente coperto i parabrezza delle auto parcheggiate>>; <<Domani
pioverà. Me lo sento nelle ossa>>; borbottò nel solito tono pseudolamentevole
che usano i vecchi quando hanno intenzione di attaccare bottone; frasi che
Alessandro finse del tutto di non sentire, non avendo quelle una connesione
precisa né un interlocutore ben individuato. L’ostinato compagno di sosta allora
finse un piccolo colpo di tosse per attirare la sua attenzione, poi si schiarì
la voce e gli chiese come si chiamasse. <<Alessandro>> rispose lui
in maniera concisa, poi ritornò in silenzio, ci pensò un po’ su, e credette che
quella breve risposta era stata forse troppo sgarbata; così aggiunse uno
scontato <<E lei?>>
<<Io
mi chiamo Andrea>> rispose il vecchio tirando fuori dalla tasca della
giacca un paio di guanti foderati in pelle che comodamente calzò sulle mani,
<<Abito lì di fronte>> disse, indicando con un cenno del capo una
finestra a tendine rosse <<Sei anche tu del parco? Non credo di averti mai
visto>>
<<Oh
no, no>> ripetè due volte il ragazzo << Io sono di un’altra zona
della città.>>
<<Allora
cosa ci fai qui? Aspetti qualcuno?>>
<<Più
o meno…>>
<<Più
o meno?>>
Impacciato
più che infastidito Alessandro non sapeva come dare un senso a
quell’affermazione, che, buttata in mezzo così, effettivamente non significava
proprio niente. A dirla tutta Alessandro sperava
di aspettare qualcuno, e nel frattempo attendeva che quel qualcuno
arrivasse. Ma un conto è spiegarlo a te, lettore, un altro era spiegarlo al
curioso Andrea che, confuso, fissava Alessandro come in attesa di un
chiarimento.
<<Beh,
è come… sa… Lei ha mai creduto nella notte delle stelle cadenti?>>
<<La
notte di San Lorenzo…>> Andrea annuì senza pensarci, per inerzia,
cercando di cogliere il filo conduttore del discorso del giovane.
<<Dunque,
ecco… Quando si fissano gli occhi nel cielo a cercare una stella, e poi si
resta lì fermi imbambolati a scrutare il buio, e si spera di coglierne almeno
una perché altrimenti non avrebbe senso che si chiami notte delle stelle
cadenti, ecco, in quel preciso momento, in quell’istante che precede l’apparire
della scia luminescente, si spera. E nello stesso preciso istante si
aspetta.>>
<<Io
spero di aspettare qualcuno.>>
Riprese dopo una breve pausa. <<Diciamo
che spero arrivi una determinata persona, pur senza avere un appuntamento
preciso.>>
<<Mmh>>
mugolò Andrea ancora più curioso ma convinto di aver finalmente afferrato il
filo del discorso, che trapunto di cieli stellati non poteva che essere unico:
l’amore.
<<Questa persona –disse calcando
l’aggettivo femminile che accompagna il nome con la tipica astuzia di una
vecchia volpe– passa spesso di qui?>>
Alessandro
fu colto da una repentina e inattesa scossa emotiva che gli attraversò tutto il
corpo per poi sfociare in un sorriso rassegnato.
<<Lei abita qui.>>
Il
vecchio sorrise di rimando e per sollevare quel velo di mestizia che lieve si
posava ora sul ragazzo come un mucchio di foglie secche sulla strada inumidita,
riprese col discorso precedente.
Prima
però diede una strattonata ai suoi guanti, quello sinistro, poi quello destro,
e con ambo le mani portò una gamba sull’altra, accavallandole.
<<Sapevi
che in latino aspettare e sperare sono la stessa parola? I romani dicevano Exspecto, e intendevano entrambe le
cose. Proprio come te in questo momento.>>
<<Exspecto>> Lo
ripeté sussurrandolo in un alito che sfumò nella bianca nebbiolina del vento gelido.
<<Lo
so.>> <<Le sembrerà strano ma lo so>> Disse a voce bassa
Alessandro. Poi tirò un lungo e profondo sospiro <<Me lo ha insegnato
Lei, sa? Studiava Lettere. Amava il greco, il latino. Amava la letteratura e la
musica classica. Amava le lingue del mondo. Amava me. Diceva che il mio nome
rispecchiava tutte insieme le sue passioni: Alessandro Magno, Aleksandr Puskin,
e infine Borodin. In quest’ordine preciso.>>
Andrea
sorrise. Ricordò. Sorrise di nuovo. L’amore è una favola vecchia che porta nel
grembo le storie di tutti. Quella che adesso Alessandro gli raccontava era la storia di Giulia. La storia di Giulia e Alessandro.
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