lunedì 6 luglio 2015

Capitolo I

I

Il viale era lastricato di foglie marroni; tutto intorno gli alberi, seminudi, tendevano le esili braccia nel vento, ove l’Autunno con dita di carta li spogliava degli ultimi veli. In cielo c’era la luna, adorna di pallido manto, e su una panchina, all’ombra maculata di un faggio, Alessandro attendeva il bus delle nove.
Benché fosse ancora venerdì, in strada non v’era nessuno, e il rumore del vento che in piccoli gorghi alzava al cielo mucchi di foglie accartocciate risuonava lungo tutto il viale. I lampioni ai lati dei marciapiedi avevano preso da poco a illuminare la strada e la luce che emanavano era ancora pallida e soffusa, mentre al di là dei grandi cancelli, le finestre delle villette rosseggiavano come piccoli fuochi nel buio della sera.
Alessandro sedeva a gambe incrociate, con lo sguardo volto agli alberi. Aveva le braccia conserte e il capo chinato in avanti. Indossava un lungo cappotto nero, di stoffa, e sul naso portava un paio di occhiali da sole, regalo di una vecchia conoscenza.
Se ne stava lì in quella posizione ormai da parecchio tempo, e circa ogni dieci minuti, in un gesto meccanico ripetuto chissà quante volte, fissava l’orologio che portava sul polso sinistro; poi ritornava con lo sguardo nel vuoto, senza mai cambiare posizione. <<Sono arrivato troppo presto>>, diceva ogni volta tra sé, <<Forse dovrei alzarmi>>, <<Forse è meglio tornare a casa>>.
 <<Giuro questo è l’ultimo>>  soggiunse infine in un lungo e profondo respiro, <<Se non è nemmeno in questo, significa che non verrà>>.
Passarono circa quaranta minuti. Il bus arrivò alle nove e venti, quando ormai le luci dei lampioni avevano preso a illuminare l’intera strada, in una lunga scia perlata che continuava a perdita d’occhio fino all’incrocio con la ventiduesima. Gli alberi sembravano arancioni, rivivificati, pur se con poche decine di foglie. E la luna, ora perduto il suo ruolo sulla scena, si copriva pudicamente dietro una lunga nuvola grigia. Il vento aveva cessato di soffiare.
L’autoveicolo sostò per una manciata di secondi alla fermata, aspettò che ne uscissero un’altrettanta manciata di persone, un ragazzino, due donne, un uomo, e poi ripartì; enorme scatolone giallo che rombava nel silenzio della notte.
Alessandro, seduto, si guardò dapprima attorno, ancora senza cambiare posizione, con fare circospetto, poi si alzò in piedi e sporgendosi sulle punte cercò di guardare fin sul fondo del viale, prima da una parte, poi d’all’altra. Nessuno. Lo stesso scatolone giallo non era ormai che un puntino indistinto nella notte. <<Sarà per le dieci>>, si disse sconsolato. Poi sedé di nuovo.
Nel riprendere posto notò con sorpresa che un’altra persona sedeva adesso accanto a lui; benché stranamente non se ne fosse accorto: era un anziano signore in impermeabile, con un elegante copricapo in pelle e una lunga sciarpa beige che scendeva fin sulle gambe.
Gli scambiò un sorriso di circostanza, come di quelli che si fanno quando non si ha voglia di parlare; poi si aggiustò il cappotto, guardò l’orologio ed incrociò braccia e gambe. Il vecchio tuttavia, in maniera volontaria o forse solo perché distratto, non colse il desiderio del ragazzo, al quale, dopo aver ricambiato il sorriso, mostrando una fila di trentadue denti bianchi e perfetti, rivolse subito la parola.
<<L’autunno quest’anno è giunto particolarmente freddo>>; <<La brina ha completamente coperto i parabrezza delle auto parcheggiate>>; <<Domani pioverà. Me lo sento nelle ossa>>; borbottò nel solito tono pseudolamentevole che usano i vecchi quando hanno intenzione di attaccare bottone; frasi che Alessandro finse del tutto di non sentire, non avendo quelle una connesione precisa né un interlocutore ben individuato. L’ostinato compagno di sosta allora finse un piccolo colpo di tosse per attirare la sua attenzione, poi si schiarì la voce e gli chiese come si chiamasse. <<Alessandro>> rispose lui in maniera concisa, poi ritornò in silenzio, ci pensò un po’ su, e credette che quella breve risposta era stata forse troppo sgarbata; così aggiunse uno scontato <<E lei?>>
<<Io mi chiamo Andrea>> rispose il vecchio tirando fuori dalla tasca della giacca un paio di guanti foderati in pelle che comodamente calzò sulle mani, <<Abito lì di fronte>> disse, indicando con un cenno del capo una finestra a tendine rosse <<Sei anche tu del parco? Non credo di averti mai visto>>
<<Oh no, no>> ripetè due volte il ragazzo << Io sono di un’altra zona della città.>>
<<Allora cosa ci fai qui? Aspetti qualcuno?>>
<<Più o meno…>>
<<Più o meno?>>
Impacciato più che infastidito Alessandro non sapeva come dare un senso a quell’affermazione, che, buttata in mezzo così, effettivamente non significava proprio niente. A dirla tutta Alessandro sperava di aspettare qualcuno, e nel frattempo attendeva che quel qualcuno arrivasse. Ma un conto è spiegarlo a te, lettore, un altro era spiegarlo al curioso Andrea che, confuso, fissava Alessandro come in attesa di un chiarimento.
<<Beh, è come… sa… Lei ha mai creduto nella notte delle stelle cadenti?>>
<<La notte di San Lorenzo…>> Andrea annuì senza pensarci, per inerzia, cercando di cogliere il filo conduttore del discorso del giovane.
<<Dunque, ecco… Quando si fissano gli occhi nel cielo a cercare una stella, e poi si resta lì fermi imbambolati a scrutare il buio, e si spera di coglierne almeno una perché altrimenti non avrebbe senso che si chiami notte delle stelle cadenti, ecco, in quel preciso momento, in quell’istante che precede l’apparire della scia luminescente, si spera. E nello stesso preciso istante si aspetta.>>
<<Io spero di aspettare qualcuno.>> Riprese dopo una breve pausa.  <<Diciamo che spero arrivi una determinata persona, pur senza avere un appuntamento preciso.>>
<<Mmh>> mugolò Andrea ancora più curioso ma convinto di aver finalmente afferrato il filo del discorso, che trapunto di cieli stellati non poteva che essere unico: l’amore.
<<Questa persona –disse calcando l’aggettivo femminile che accompagna il nome con la tipica astuzia di una vecchia volpe– passa spesso di qui?>>
Alessandro fu colto da una repentina e inattesa scossa emotiva che gli attraversò tutto il corpo per poi sfociare in un sorriso rassegnato.
<<Lei abita qui.>>
Il vecchio sorrise di rimando e per sollevare quel velo di mestizia che lieve si posava ora sul ragazzo come un mucchio di foglie secche sulla strada inumidita, riprese col discorso precedente.
Prima però diede una strattonata ai suoi guanti, quello sinistro, poi quello destro, e con ambo le mani portò una gamba sull’altra, accavallandole.
<<Sapevi che in latino aspettare e sperare sono la stessa parola? I romani dicevano Exspecto, e intendevano entrambe le cose. Proprio come te in questo momento.>>
<<Exspecto>> Lo ripeté sussurrandolo in un alito che sfumò nella bianca nebbiolina del vento gelido.
<<Lo so.>> <<Le sembrerà strano ma lo so>> Disse a voce bassa Alessandro. Poi tirò un lungo e profondo sospiro <<Me lo ha insegnato Lei, sa? Studiava Lettere. Amava il greco, il latino. Amava la letteratura e la musica classica. Amava le lingue del mondo. Amava me. Diceva che il mio nome rispecchiava tutte insieme le sue passioni: Alessandro Magno, Aleksandr Puskin, e infine Borodin. In quest’ordine preciso.>>

Andrea sorrise. Ricordò. Sorrise di nuovo. L’amore è una favola vecchia che porta nel grembo le storie di tutti. Quella che adesso Alessandro gli raccontava era la storia di Giulia. La storia di Giulia e Alessandro.


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